La band statunitense fronteggia le discriminazioni dell’era Trump con il suo riuscitissimo secondo album: ne abbiamo parlato con la cantante Rikki Vanderpol, tra consigli musicali e opinioni sulla scena underground.
–
_di Luca Cescon
–
Da un anno e mezzo a questa parte, il mondo della cultura statunitense è in subbuglio: l’elezione di Donald Trump ha risvegliato un senso comune, quanto mai necessario, di affidarsi a mezzi più o meno mainstream per far sentire la propria voce nei confronti di atteggiamenti discriminatori e razzisti che sembravano essere solo un brutto ricordo.
La musica di consumo ha preso le distanze da una serie di politiche e provocazioni che hanno minato la quotidiana convivenza all’interno di un Paese che ha sempre fatto dell’accoglienza un suo punto di forza. Non sono rimaste immuni da questa ventata di odio la figura della donna, ritornata a essere prepotentemente mercificata, e quella della comunità LGBTQI, sempre più preda di una nuova tendenza omofoba, figlia purtroppo di un mondo che regredisce anche sulle piattaforme di condivisione del pensiero.
Smarcarsi significa talvolta dettare un “dentro o fuori” al fruitore di turno, che sia esso un lettore, un ascoltatore o un cinefilo: tuttavia, si ha la certezza che il proprio pubblico sia connesso al 100% col pensiero di chi crea il prodotto in questione.
Il mondo culturale underground si è attivato al meglio per cercare di urlare un messaggio forte e senza compromessi all’amministrazione a stelle e strisce, ma più in generale anche a un pensiero comune ancora molto bigotto e narrow minded che preferisce una critica cieca a una progressiva apertura verso il cosiddetto “diverso”. L’hardcore-punk ha sempre avuto un impatto forte per quanto riguarda un determinato tipo di messaggio trasmesso attraverso i testi delle canzoni e l’atto stesso del concerto come momento di condivisione e di protesta.
Il secondo album dei Dying For It si inserisce di prepotenza in questo rinnovata senso di appartenenza a una mentalità decisamente old school, che tende a promuovere un pensiero critico senza dimenticare i canoni musicali del genere.
Le dieci tracce che compongono “Born to Deny”, uscito per Safe Inside Records a fine aprile, sono una rapida sventagliata di hardcore-punk dai toni moderni, che non lascia da parte le radici ma che al tempo stesso può puntare su una registrazione di qualità, tanto da farne un lavoro godibile e interessante.
Il vero punto di forza della band è tuttavia la voce di Rikki Vanderpol, sincera e arrabbiata, la quale permette ai Dying For It di unirsi a un nascente gruppo di gruppi female-fronted di altissima qualità (basti pensare ai Gouge Away o ai Krimewatch).
Abbiamo scambiato qualche parola con la cantante, per scoprire le novità più calde in ambito hc ma anche per leggere al meglio il pensiero alla base della release.
“Born to Deny” esce a distanza di due anni dal vostro primo full lenght omonimo: come presentereste il nuovo lavoro?
Abbiamo dato un giro di vite alla nostra musica: l’abbiamo resa più veloce, energica e diretta. La prima uscita era un insieme di canzoni scritte da Thomas, il nostro batterista, che le aveva concepite nell’arco di un paio di anni; “Born to Deny”, al contrario, vede la partecipazione di tutti i membri della band in fase di scrittura.
L’album porta con sé il pensiero di tutti noi e siamo orgogliosi di ciò che abbiamo creato: attualmente siamo usciti in digital download e vinile, oltre che sulle piattaforme di rito, e non vediamo l’ora di poter portare il materiale in giro, nella speranza di organizzare un tour nella East Coast e in Europa entro il prossimo anno.
I testi parlano di sentimenti e sensazioni personali, ma raccontano anche di un comune senso di rabbia contro le discriminazioni. In quale modo la scena hardcore sta affrontando il cambiamento politico, e quanto è importante per i Dying For It diffondere una sorta di “pensiero critico” in sede live?
Personalmente, vedo una scena hardcore molto consapevole dell’oppressione e della bigotteria che ormai fa parte della vita di tutti i giorni. Un tempo c’erano band che mettevano al centro la politica in modo molto radicale, ma penso che ora questa situazione sia mutata: tutti noi siamo influenzati negativamente dalla società, tanto da far diventare una cosa quasi normale l’atto di “starsene fuori dal coro”, facendo qualcosa di diretto al fianco delle persone più marginalizzate. Il pensiero critico è un’idea che tutti noi all’interno della band abbiamo a cuore, e vogliamo fortemente che questo messaggio arrivi nel modo più chiaro possibile a chi partecipa a un nostro show.
Il 2018 sta segnando, fino a ora, un nuovo Rinascimento in termini di musica underground: quali uscite vi sentite di consigliare?
Siamo davvero orgogliosi di far parte di un momento così importante e prolifico per l’hardcore, e senza un ordine preciso ci piacerebbe consigliare:
Cutting Through-Empathy
Berthold City-Moment of Truth
Clear Focus-Never Ending Pain
Sissyfit-Make Em Pay
Jungle Green-Big Big Love Demo
Pity Party-Are You Happy Yet?
American Nightmare-American Nightmare
Line of Sight-Dissent
Ecostrike-Voice of Strength
Crucial Measures-Demo 2018
Safe Inside Records si sta imponendo come una delle label più interessanti in circolazione: quali sono i vostri piani per il futuro e come sono i rapporti con l’etichetta?
Siamo letteralmente innamorati della Safe Inside Records e di Burt, il ragazzo che la dirige: siamo molto fortunati a far parte del gruppo di band che ha riunito sotto questa etichetta e non vediamo l’ora di lanciarci nel nostro giro estivo insieme ai Clear Focus per un po’ di date. Burt ha organizzato l’intero tour ed è stato molto attivo in fase di booking, preparazione del merch e organizzazione dei nostri spostamenti. Sicuramente saremo trattati alla grande durante questo primo tour.
Potete spiegare il significato dell’artwork del vostro album?
La title track, “Born to Deny”, dice “It’s in my nature to burn you alive. I’m just a creature born to deny”; l’idea è venuta a Shane, il nostro chitarrista, e il riferimento è al Grande Incendio di Roma del 64 d.C., in cui l’imperatore Nerone diede ordine di bruciare la città, mettendosi a suonare una cetra, mentre tutto attorno a lui bruciava.
–
Le donne sono sempre più coinvolte nella musica hardcore-punk: ti senti come compresa in una grande famiglia in lotta contro le discriminazioni?
Ho sempre cantato in qualche band fin dall’adolescenza, e posso dire senza ombra di dubbio che essere una donna in questo contesto è decisamente diverso dopo quattordici anni … In senso positivo! Prima sembrava essere un club privato per soli uomini, e ovunque mi trovassi in tour venivo sempre scambiata per la ragazzina del merch, o per la fidanzata di qualche membro della band. Dopo aver suonato spesso mi sentivo apostrofare con frasi stupide come “Sei brava per essere una ragazza!”. Posso dire in tutta sincerità che da quando faccio parte dei Dying For It la situazione è migliorata di molto all’interno della scena; ho avuto la chance di creare un ottimo rapporto con altre figure femminili legate al mondo dell’hardcore-punk e sì, sembra davvero di essere parte di un qualcosa che va oltre la musica. Sono fiera di dire che nell’ultimo decennio le idee a favore del femminismo e per l’uguaglianza di genere sono diventate sempre più presenti dentro questo contesto musicale.