Lara Favaretto: la mostra personale “SUCKING MUD” alla Galleria Franco Noero

La mostra personale di Lara Favaretto, “SUCKING MUD”, è una suggestione sensoriale a 360 gradi e una riflessione onesta sul materiale, sulla sostanza e sul suo ruolo nello spazio e nel tempo, sotto forma di caccia al tesoro. È ospitata nella sede di Piazza Carignano.

_di Miriam Corona

Il 18 aprile è stata presentata presso la sede storica di Piazza Carignano della Galleria Franco Noero la nuova personale di Lara Favaretto, artista che vive e lavora a Torino, “SUCKING MUD”. Il titolo è tratto dall’omonima poesia di John Giorno (tradotta letteralmente come “succhiare fango”), al cui interno l’espressione è ripetuta più volte e alla quale, estrapolata dal contesto originario, si può attribuire il significato di prosciugamento in senso drenante, come ad eliminare il materiale in superficie per arrivare alla vera sostanza che esso cela.

All’interno dell’esposizione, ci si muove senza indiziI materiali e gli oggetti utilizzati sono privi di attributi, dunque esposti nella loro schietta identità originaria; inseriti in un contesto che stride sul piano concettuale, essi non possono fare a meno che generare un equivoco.

Il lavoro più esteso, “Grid After Piet Mondrian, Composition, 1927”, realizzato nel 2018, è quello che ci accoglie appena entrati nella galleria. Una visione da ricercare però, poiché, inizialmente disorientati da una sala apparentemente spoglia, dobbiamo alzare gli occhi per trovarla. Una composizione di tubi di ferro, giunture e legno, alcuni dei quali ricoperti di filo di lana nei tre colori primari utilizzati per l’appunto da Mondrian – blu, rosso e giallo. La griglia, che corre sopra le teste dei visitatori per quattro sale, mette in relazione la struttura architettonica e l’umano, sottolineato dall’uso di materiali da costruzione e formando un’impalcatura che rende omaggio alla geometria del celebre pittore.

 

 

In un gioco di riflessi e rumori, “Luna Park” è l’elemento interattivo all’interno delle sale: una pedana di lamiera rialzata, grande circa 10 metri quadrati, che occupa lo spazio sottostante alla griglia. Vivido ricordo delle giostre, permette ai visitatori di salirci sopra e specchiarsi negli specchi antichi posti sulle pareti. I passi sopra le lamiere ricreano un metallico rumore, quasi scoppiettante, legato strettamente alla dimensione temporanea come quella dei Luna Park.

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Una composizione verticale di quadri ritrovati compone “335, 350, 3302, 349, 356, 364”, anch’essa un’opera del 2018; essi sono ricoperti da una fitta trama di fili di lana verdi verticali che però li lasciano intravedere, seppur in modo non chiaro: in questo modo, l’interazione classica tra spettatore e quadro appeso viene messa in discussione, riducendo l’incontro visuale ma amplificando quello tattile.

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“Sucking Mud” appare al visitatore in un senso delicato e profondamente raffinato; gli scavi creati dai tarli, impressi permanentemente sotto forma di solchi nel pavimento di legno, sono riempiti di oro. L’apparente deterioramento viene così annullato non tramite la sua eliminazione ma attraverso il riempimento, conferendogli di conseguenza anche il massimo valore che gli si possa attribuire. L’operazione appare così come il risultato di un processo di guarigione.

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Nella stanza appena accanto, sulla parete, una placchetta di ottone con una fessura orizzontale recita le parole “YOUR MONEY HERE”. L’invito a elargire un’offerta, la cui destinazione ci è sconosciuta, è un’azione che rimane sospesa; che sia un’espressione di apprezzamento per l’opera dell’artista o un contributo a qualsivoglia causa, ci appare nuovamente fuori luogo ed equivoca.

Nell’ultima stanza, “Homage to Bas Jan Ader” è un ipotetico cenotafio dedicato all’artista olandese scomparso in mare nel 1975. La struttura rettangolare è composta interamente in ottone lasciato crudo, materiale destinato ad ossidarsi e a mostrare su di esso i segni del tempo, tangibile prova dello scorrere di esso. Intorno ad esso, manciate di terriccio, simbolo primordiale di rinascita.

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Da dietro una delle porte della galleria, insistenti rumori martellanti riecheggiano ad alto volume. La registrazione, “Doing” – suono registrato dal vivo nel 1998, accompagna per tutto il percorso dando la sensazione di essere immersi vicino a dei lavori in corso che non ci è dato sapere dove e come si svolgono, subendone solo gli effetti collaterali rumorosi.

L’intero percorso si genera su più piani e superfici: l’attraversamento di esso non può che creare più impressioni sensoriali. Dal soffitto al pavimento e alle pareti, il lavoro della Favaretto si spande nelle sopracitata ricerca della sostanza mettendo a nudo gli elementi che la compongono attraverso un processo di sottrazione. Se ci si affaccia sulla splendida cornice di Piazza Carignano, le opere ci accompagnano con le loro suggestioni sonore tra passi su lamiera e ipotetici muri abbattuti: una mostra che respira anche al di fuori del suo spazio.

Photo credit: Sebastiano Pellion di Persano

Courtesy: Lara Favaretto e Galleria Franco Noero