Il trionfo di Alessandro Mannarino, venerdì scorso (31 marzo) al Teatro Carlo Felice di Genova, non è stato soltanto un riconoscimento artistico. È stata l’adesione delle 2mila persone presenti al mondo del tutto personale del cantautore romano, classe ’79, romanaccio tumultuoso, che ci ha accompagnati in un mondo popolato di donne di porto e carcerati, di zombie parlanti e di madri disperate: un mondo che appartiene a un altro tempo, ma anche a un altro spazio.
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_di Elena Fassio
A Genova il cantautore romano era già stato l’estate scorsa, al Porto Antico. E anche lì c’erano stati i segni di una popolarità crescente, che poi ha portato il tour di “Apriti cielo” a superare le 100 mila presenze.
Prendiamo la scena di questo tour: poche luci, molte penombre, effetti leggeri di trasparenza, non c’è una volta che perda il filo del rigore. Lui sta avanti, all’inizio da solo con la sua chitarra, poi all’elevarsi della musica esplode la band dietro un velo semitrasparente, in fila, come tante statue ben disposte. È così, giocando con la sagoma della meravigliosa cantante e violinista Lavinia Mancusi, che cantano “Marylou” a cui tutti i marinai gridano “I love you”.
Lui canta, a volte sussurra, altre recita, monologa e il pubblico sa tutto, riconosce tutto, lo segue in coro quando proprio non può resistere. Altrimenti lo rispetta, accarezza l’idea che quello che dice è anche storia sua, della ragazza con i capelli biondi raccolti in una coda piuttosto che della brunetta che se ne sta defilata.
«Mannarino non ha le stimmate dell’artista progressista,
non è un rapper, è amaro e ironico,
ma non come intendevamo De André o Rino Gaetano»
Canta “le rane stanno sul comò, mi bevo quello che non ho, da quando sei andata via, ho allagato casa mia e a Natale dove andrò…” e parte un coro sommesso: finirà con interminabili minuti di applausi, che porteranno Mannarino a uscire alla ribalta anche se i tecnici stanno già smontando gli strumenti a cantare “Il bar della rabbia” con la chitarra e le luci accese.
È la semplicità recuperata a fatica da un pubblico che non si sente strapazzato, né parte di una protesta confusa: li guardi in faccia e scopri che Mannarino li invita a studiare, fare buone letture, essere diffidenti, vivere i sentimenti per quello che danno: gioia, ma pure guai, patemi, ansie, illusioni.
In questo tour “L’impero crollerà” nei teatri, che già come messaggio non è male, ci sono momenti solenni come “Le stelle”, “Apriti cielo” e “Deija”, e altri maestosi, nel senso del ritmo, come “Tevere Grand Hotel”, “Serenata lacrimosa” e “L’impero”. Alcuni brani sono utopici, sì, ma non sono mai retorici: dietro le loro parole si vede sempre in modo molto chiaro, dipinta a colori, una filosofia schietta e scaltra, dissacrante nei confronti dei messaggi bigotti e benpensanti, ma risacralizzante nei confronti di altri valori, più sinceri, più naturali.
Mannarino non ha le stimmate dell’artista progressista, non è un rapper, è amaro e ironico, ma non come intendevamo De André o Rino Gaetano. Perché dunque rischia, con uno show teatrale intimo e garbato, il 6 aprile sarà agli Arcimboldi di Milano, il 28 e 29 all’Auditorium del Lingotto a Torino, di diventare un caso letterario e di costume? Andate a sentire qualche sua canzone, anche su Youtube, e lo capirete.