Abbiamo partecipato ai cinque incontri della seconda rassegna Sentimenti al Negativo al Circolo dei Lettori, curata dalla rivista Doppiozero. Ogni mercoledì sera sono stati presi in analisi alcune pulsioni del nostro animo che comunemente vengono definite “negative”, per essere indagate e definite sotto un’altra luce, andando a sviscerare significati e origini, potenzialità e contraddizioni. Ecco come è andata.
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_ di Beatrice Brentani
Siamo giunti al termine anche di questa seconda, intensa rassegna. Ci siamo addentrati nelle cavità più profonde dell’animo umano, ne abbiamo sentito approfondire alcuni aspetti appartenenti alla sfera neurologica, emotiva, sensoriale. Abbiamo cercato le relazioni tra i sentimenti e le azioni volontarie (o, anche, talvolta, involontarie) e, senza alcuna pretesa di fornire una chiave di lettura univoca e definitiva, o una consequenzialità forzata, abbiamo terminato l’analisi di ogni incontro con qualche consapevolezza in più su alcuni nostri stati non solo emotivi, ma anche comportamentali.
Questo e altro è stato affrontato da alcuni importanti interventi a opera di cinque diverse personalità, ogni mercoledì sera, dal 7 febbraio al 7 marzo, al Circolo dei Lettori: dopo il successo del primo ciclo di incontri dello scorso autunno, la rassegna Sentimenti al Negativo curata da doppiozero è tornata a riempire di parole la Sala Grande del Circolo.
Mercoledì 7 febbraio, la Vergogna è stato il sentimento protagonista della serata: ce ne ha parlato Marco Belpoliti, scrittore e critico letterario italiano, nonché fondatore e direttore editoriale di doppiozero.
Arrossire, mordersi le labbra, alterare il volto con strane smorfie, inarcare le sopracciglia: questi sono solo alcuni dei sintomi espressivi con cui comunichiamo esteriormente la nostra vergogna, una delle passioni dell’animo più legate al nostro rapporto con la socialità e, dunque, con l’esterno. Nonostante il suo essere un sentimento sociale per definizione, la vergogna nasce all’interno del nostro Io: è dunque individuale e diversa in ognuno di noi e, in alcuni casi, può anche provocare forte aggressività e crisi depressive – tutto dipende dalla disposizione personale di ciascuno.
La vergogna non è, però, un sentimento inutile: tramite la sua misurazione noi costruiamo un’immagine di noi stessi più fedele perché riusciamo a vederci con un certo distacco utile per riflettere maggiormente su noi stessi e diventare individui più consapevoli del nostro agire. La vergogna, inoltre, è necessaria per fare in modo che questa nostra autoriflessione non sfoci in forme estreme di egocentrismo – la soglia è oggi molto facile da valicare: in una società in cui non conta più quanto si sa fare bene un qualcosa, ma conta, invece, quanta personalità si possiede, il grande mondo/sala di specchi in cui siamo costretti ad autodefinirci sembra volerci imporre il dominio dell’immagine e, conseguentemente, di un’immagine bella di noi stessi. Ci sentiamo obbligati a pensare al nostro riflesso più che alle nostre competenze. La vergogna, in questo caso, è utile per mettere in crisi questo meccanismo egocentrico indotto dal vivere sociale: essa è, secondo le parole di Walter Benjamin, l’unica forma di innocenza possibile per l’umanità. L’uomo deve cercare non di liberarsi dalla vergogna ma, al contrario, di liberare la vergogna, in modo tale da avvicinarsi di più a se stesso.
Mercoledì 4 febbraio, il sentimento di Nostalgia è stato approfondito da Antonio Prete, critico letterario, scrittore e docente universitario italiano.
νόστος (nostos, ritorno a casa) e άλγος (algos, dolore): desiderio di tornare verso il proprio luogo domestico. Questa è stata, in origine, la nostalgia, sentimento esperito dai militari quando si trovavano lontano da casa. A inizio ‘800, però, gli stessi sintomi dei soldati iniziarono a mostrarsi anche in individui che si allontanavano per lavoro dalle proprie mura domestiche e dalle famiglie: il rimpatrio di questi individui era l’unica cura possibile per loro. Il dolore dato dalla nostalgia derivava proprio dalla consapevolezza di non poter fare ritorno (o, almeno, non in breve tempo) nella propria casa degli affetti. Era una vera e propria malattia patologica e tale rimase per tutto il corso dell’Ottocento. Iniziò a essere impiegata dai poeti novecenteschi con modulazioni diverse: ne parla per primo, in Italia, Leopardi, quando descrive la nostalgia nei confronti di Recanati, accostandola ad altri sentimenti come quelli di noia e di desiderio. Ne parla, ancora, Baudelaire, in una lettera alla madre.
“Nostalgia” diventa, nel XX secolo, un termine sempre meno legato alla sfera clinica e sempre più a quella emotiva; il termine si può accostare a “melancolia”, una tristezza morbosa e ostinata che spesso paralizza l’azione.
La nostalgia, afferma Prete, non è tanto legata ai luoghi quanto al temo passato in quei determinati luoghi: il senso di inquietudine e di tristezza che si prova deriva proprio dalla nostra consapevolezza di non poter tornare a quel tempo vissuto in quel posto; una volta tornati nel luogo dei nostri desideri, non saremo comunque tornati al tempo da noi tanto vaneggiato. Ecco perché la nostalgia si lega all’irreversibilità degli eventi e, se portata agli estremi, può davvero divenire una vera e propria malattia fondata sull’illusione di poter tornare a un qualcosa che è già stato e che, per forza di cose, non potrà mai più essere, perché il tempo è passato.
Mercoledì 14 febbraio, Pietro Barbetta, Direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia e professore di Teorie psicodinamiche all’Università di Bergamo, ci ha parlato di Risentimento.
Barbetta ci ha guidati all’interno dell’universo sensoriale e psichico del risentimento attraverso una fitta antologia di citazioni letterario-filosofiche. Si è parlato della Genealogia della morale di Netzsche, per esempio, ma anche dell’intervento di Borges in una conferenza su Joyce; di Senza frode o favore di Costa; di alcuni scritti di Marcol Belpoliti; del Machbeth e del Mercante di Venezia di Shakespeare.
Il risentimento è un sentimento inconscio e sociale, collegato in un certo qual modo al male, alla vendetta (troppo spesso mascherata sotto il termine di “giustizia”), alla violenza dell’uomo nei confronti dell’uomo stesso – l’uomo è, in natura, l’unico animale che mette violenza intraspecie e non soltanto interspecie. Oggi siamo soliti attribuire agli altri le colpe dei nostri fallimenti: si è scatenato, in società, un circolo vizioso di colpe che ci attribuiamo reciprocamente così da non dover provare vergogna nei confronti di noi stessi. Questo meccanismo borderline ha creato una società fondata sul risentimento che viene, così, accettato in maniera discreta e gentile, come se fosse un automatismo comune e giusto del nostro essere.
Il risentimento non è giustificabile e universalmente tollerabile, ma Barbetta si è anche chiesto, nella sua analisi su questo particolare sentimento, se esista un limite oltre il quale sia giusto provare risentimento e non lasciare che esso scompaia o si affievolisca con il tempo. Per la religione ebraica, ad esempio, un individuo non deve sentirsi obbligato a perdonare il prossimo: gli ebrei distinguono tra il perdono vero e proprio e la riconciliazione; mentre, infatti, la seconda dev’esserci sempre, il primo non è obbligato a esistere. Cosa ci rende in diritto di provare risentimento, dunque? Primo Levi riteneva imperdonabile il pensiero di coloro che credevano che la Shoah non li riguardasse; in Only Words, Catharine A. Mackinnon, un’avvocatessa statunitense, spiega quanto il risentimento sia un diritto nei casi in cui le donne non riescano a ottenere giustizia in Tribunale nei casi di violenza sessuale – negli Stati Uniti, per una donna, è molto difficile riuscire a vincere una causa di questo tipo, perché occorrono numerosissime prove e testimonianze dirette.
Mercoledì 28 febbraio, la psicoterapeuta Nicole Janigro ci ha parlato dell’Ansia.
L’ansia si relaziona al nostro desiderio di governare ciò che è, per sua natura, ingovernabile; è una sindrome che contiene al suo interno malesseri diversissimi e che si sta diffondendo sempre di più e a un livello sempre più intenso con il crescere della velocità della vita. Siamo individui talmente abituati alla frenesia del nostro quotidiano che, ogni qual volta noi rallentiamo, ci sentiamo ansiosi e talvolta depressi, perché desideriamo subito rimetterci in carreggiata per fare qualcos’altro.
Heidegger, in Essere e Tempo, identificava l’angoscia (un altro termine tramite cui l’ansia viene identificata) come un elemento costitutivo dell’uomo, una vera e propria sensazione legata alle nostre questioni ontologiche. Si è passati, nel corso della storia, da un tipo di malessere che era espressione di un conflitto (e quindi di un “esserci”) a un malessere che deriva dal timore di un deficit (di “non esserci più” e di non fare alcuna differenza nel mondo).
L’angoscia/ansia è sempre in cerca di un motivo: si attacca a qualsiasi evento della nostra esistenza pur di sopravvivere; è necessario, afferma Janigro, cercare quali siano le radici di questa sensazione, così da tentare di comprenderle. Una volta compresa l’angoscia, infatti, essa può divenire utile ai fini di risolvere determinati conflitti del nostro Io o può rivelarsi una compagna di difesa contro il pericolo – l’angoscia, infatti, avverte incosciamente il pericolo ben prima della nostra razionalità. Che cos’è infatti l’ansia se non il tentativo, da parte del nostro inconscio, di proteggere l’apparato psichico dai traumi? Essa funziona come un vero e proprio stato di allerta ed è presente come muro di difesa anche nelle situazioni più normali – ed è proprio questa, l’ansia apparentemente ingiustificata, che occorre tentare di comprendere per riuscire a sradicare. Occorre localizzare il punto di origine ed evitare che essa dilaghi eccessivamente.
Mercoledì 7 marzo, infine, il saggista e scrittore Gianfranco Marrone ci ha spiegato che cosa sia la pigrizia.
Siamo stati troppo abituati a credere che la nostra identità si costruisca unicamente attraverso l’attività. Ode alla pigrizia, al valore e all’onore dell’essere persone pigre: perché non è assolutamente vero che i pigri non fanno niente e non diventano nessuno. Il pigro è colui che si rifiuta di sottostare alla regole altrui, che si costruisce da sé, senza bisogno di obbedire ai doveri che qualcun altro vorrebbe imporgli.
Spesso, la pigrizia viene associata alla stanchezza: sono entrambi modi di essere che avvertiamo pressappoco tutti i giorni e che, proprio per il loro essere così tanto quotidiani, non vengono presi in considerazione come validi argomenti di ricerca; invece, pigrizia e stanchezza sono spie molto importanti per il conoscimento della propria persona e dei propri limiti. Robert Luis Stevenson ha scritto L’elogio dell’ozio; Bertrand Russell ha scritto un’opera omonima: la pigrizia, dunque, non è un fenomeno così poco lasciato nell’angolo o, per lo meno, non è qualcosa che sentiamo di dover dimenticare. Al contrario, noi dovremmo sentirci in diritto di sentirci pigri o stanchi durante le nostre giornate.
Ciò che conta, nel nostro vissuto, non è tanto la realizzazione di sé, quanto la felicità di essere ciò che si è e di fare ciò che si fa: ognuno dovrebbe, insomma, stando a quanto dice Fourier, fare del proprio tempo quel che ritiene sia la cosa migliore per se stesso. Il tempo perduto per fare ciò che si vuole, e non ciò che qualcuno ha imposto, non è mai tempo davvero perduto. Per Barthes, Proust è stato il più maestoso elogiatore del tempo perduto: in À la recherche du temps perdu riesce perfettamente a interpretare la pigrizia odierna, in cui il tempo che si perde lo si ritrova, poi, nelle proprie creazioni (nel caso dell’opera, il tempo perduto viene poi ritrovato nell’opera stessa): il lavoro che noi stessi decidiamo di fare, senza alcun obbligo da parte di esterni, ci riscatta da tutto il tempo in cui abbiamo deciso di “essere pigri”.