Il post-punk intriso di soul della band di Atlanta trasforma il Basement dell’Astoria nella sede clandestina di una cospirazione rivoluzionaria per un live carico di pathos e tensione che li consacra – se ancora qualcuno non se ne fosse accorto – come una delle band più interessanti di questi anni.
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_di Alessia Giazzi
“La musica non ha più un messaggio”. Me lo dice con amarezza una persona delusa dalla scena musicale contemporanea mentre camminiamo mesti mesti per strada. È difficile non domandarsi che cosa stia succedendo: quello che stiamo vivendo è un momento tragico di mancanza di contenuti, un grigissimo piattume di mode e ironia dove le visualizzazioni su Youtube sono l’unità di misura del successo di una band. È in questo particolare periodo storico che band come gli Algiers sono un baluardo di speranza nella sconfinata vacuità del panorama musicale attuale (certamente non i soli, basti pensare ad altri bardi outsiders come gli Sleaford Mods o Kate Tempest).
Non è bastato essere la band ad avere l’onore di aprire i live dei Depeche Mode, per gli Algiers la gavetta non è ancora finita: un novembre caldissimo di quasi venti date li porta ancora una volta in giro per l’Europa. Ad accoglierli a Torino c’è il gremitissimo Basement dell’Astoria, rovente come non mai.
Nel buio della sala, compressi nello spazio in religioso silenzio, sembra di assistere, più che a un concerto, a un comizio clandestino di rivoluzionari anti-sistema; e l’ormai fedelissimo stendardo delle Pantere Nere con il pugno levato non fa che una scenario già di per sé suggestivo.
Cupi, gravi, stridenti, lo spessore della band di Atlanta si riflette non solo nelle tematiche socialmente impegnate dei testi ma anche nell’attitudine che il quartetto ha dal vivo. La performance che prende forma sul palco del Basement è intrisa di tutta la solennità di un rito e della rabbia di cantare l’orrore, l’oppressione e la violenza. La realtà ci viene sbattuta in faccia nuda e cruda, senza fronzoli e senza ironia: questo è il presente e non c’è proprio un cazzo da ridere.
La potenza espressiva degli Algiers ha qualcosa di animalesco, viscerale, travolgente che si rispecchia negli atteggiamenti spiritati del quartetto sul palco.
Il gospel tormentato di Franklin James Fisher è una gioia per l’anima e la magia nera di quelle corde vocali che sovrastano il noise post-industriale è voodoo puro che si impadronisce di corpo e mente. Poco importa se i bassi di Blood ti mangiano lo stomaco e gli effetti di Walk like a panther ti rimbombano nella scatola cranica, il tuo corpo non può fare a meno di muoversi al ritmo frenetico del quartetto sul palco.
Where’s the revolution? direbbe Dave Gahan. Questa sera la rivoluzione è nel Basement dell’Astoria e ha le sembianze di quattro ragazzi americani: la rivoluzione degli Algiers sta nel restituire alla musica il proprio valore sociale, nel poter cantare e suonare la denuncia di una società alla deriva scuotendo le coscienze sopite. “All power to the people” ci ricorda lo stendardo con il pugno levato, ci dice che è ora di ribellarci alle focaccine dell’Esselunga e alla pasta col tonno, il menù ha ben altro da offrire. Ancora una volta leviamo il pugno al cielo: all power to Algiers.
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