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_di Gaël Pernettaz
Dopo gli studi di Freud, il sogno ha trovato nella letteratura un rifugio più confortevole di quanto non fosse il nostro subconscio. I sogni di Drogo, carichi di funerei presagi, ne Il deserto dei tartari, o quelli allucinati e filosofici di Hans Castorp ne La montagna incantata sono solo alcuni fra quelli che hanno trovato casa fra le fitte pagine dei romanzi novecenteschi. Il mondo onirico è stato terreno fertile per la penna degli scrittori nell’ultimo secolo, e come per tutti i terreni fertili, il suo sfruttamento incondizionato ne ha causato la perdita di forza e di novità. Si incammina dunque su un campo minato Marita Bartolazzi, con La donna che pensava di essere triste che del sogno e dei meccanismi onirici fa il suo centro.
In un mondo dove i sogni si vendono al supermercato, le statue di bronzo parlano e si spostano accompagnando la protagonista (mai chiamata per nome, ma sempre ricordata come “la donna che pensava di essere triste”, il che dà al discorso una impronta di oralità fiabesca unita ad un ritmo da canzonetta), il sogno riacquista, però, la freschezza sua propria; quella freschezza che aveva a metà Ottocento, quando Lewis dava vita alle avventure di Alice nel paese delle meraviglie.
Proprio a questo, infatti, La donna che pensava di essere triste rimanda spesso, in modo ellittico, non sistematico, ma con qualche riferimento sparso qua e là (il gatto che accompagna la protagonista non può non ricordare lo Stregatto, compagno di Alice), che il lettore può cogliere o lasciarsi sfuggire, tanto nulla cambia, nulla ha senso e nulla ha peso, proprio come nei sogni.
«A metà strada fra la scanzonata allegria e l’istinto pedagogico»
L’autrice crea così un labirintico contenitore in cui tutto si spezza in forme (i cerchi e le losanghe di cui è fatta la tristezza della protagonista) e colori (soprattutto il “blue”, colore della malinconia) pronti a ricompattarsi in seguito in immagini differenti. Nulla è dunque stabile e tutto si frange e scinde, persino la protagonista che nel corso del racconto ritrova diverse sue sé stessa, alter ego passati e abbandonati che ritornano nella sua vita, quale la “sé stessa dal cappotto rosso” identica a lei se non per il capo di vestiario e il fatto che questa si è tatuata un roseto sulla testa rasata, o la “sé stessa del labirinto”, sua minuscola riproduzione che, come un criceto, vive in una sorta di gabbietta.
Tale contenitore non è però vuoto, un mero divertissement letterario, ma dentro vi si coglie un’anima malinconica che tenta di esprimersi e di emergere con forza dalla prima riga sino all’ultima, ma che finisce per stemperarsi nel surreale (come nei film di Wes Anderson per intenderci). Quali le gocce delle lacrime della donna che pensava di essere triste che, ad un certo punto, assumono vita propria e la seguono per casa, così tutta la tristezza del testo si scioglie e sposta in una dimensione altra, imprimendo sul volto del lettore non una smorfia afflitta, quanto piuttosto un sorriso, seppur pensieroso.
A metà strada fra la scanzonata allegria e l’istinto pedagogico, come Jacques Prévert o Gianni Rodari prima di lei, si muove Marita Bartolazzi ne La donna che pensava di essere triste, con cui ci ricorda l’importanza e il valore della tristezza in un linguaggio nuovo, semplice e frizzante.
Da consigliare a tutti, soprattutto a chi ha amato quel piccolo capolavoro che è il film Disney-Pixar INSIDE OUT, i quali qui si ritroveranno, ne siamo certi, a casa.