Paul Weller: dieci pezzi per decifrare “The Changingman”

Con i Jam ha dato nuova linfa al modernismo, poi all’apice del loro successo si è rimesso in discussione formando gli Style Council. Infine, dagli anni ’90 è semplicemente Paul Weller. Dieci canzoni per capire chi è “l’uomo cangiante”.

_Silvio Bernardi

Molti lo conoscono come il “Modfather”, e in effetti considerando l’impatto che i suoi Jam hanno (ri)dato a un movimento come il modernismo – nato tra la fine dei Cinquanta e l’inizio dei Sessanta ma già morto e sepolto alla fine dei Sessanta stessi –  dal 1978 in poi non è affatto fuori luogo. Considerando però che i Jam sono stati solo la prima parte, per quanto scoppiettante, di una carriera che ha avuto molte e imprevedibili diramazioni, il più calzante dei nickname di Paul Weller rimane quello che lui stesso si è dato con un brano, The Changingman, ovvero L’uomo cangiante, titolo tra l’altro di una eccellente biografia in italiano scritta da Tony Face Bacciocchi e che consigliamo a chi voglia avvicinarsi maggiormente al personaggio. Che torna, con armi e bagagli e con la consueta band dai nomi eccellenti (tra gli altri Steve Cradock degli Ocean Colour Scene, Andy Crofts e Ben Gordelier dei The Moons), in Italia per tre date presentate in esclusiva da Barley Arts: domenica 10 settembre a Bologna all’Estragon, lunedì 11 al Porto Antico di Genova e martedì 12 all’Alcatraz di Milano. Abbiamo colto l’occasione per introdurvi alla sua corposa discografia con una mini-guida all’ascolto.

1. The Jam – Start! (1980)

Uno dei pezzi più noti dei Jam, uscito nel 1980 sull’album Sound Affects, “prendeva in prestito”, per usare un eufemismo, un giro di basso dei Beatles, quello di Taxman. Le influenze dei Fab Four, dei Kinks e soprattutto degli Who non sono mai state nascoste da Weller, sebbene negli anni del punk (e post-punk) fosse quasi obbligatorio schierarsi contro i maestri del passato. Già allora il trio di Woking andava controcorrente tributando i propri maestri. Il risultato di questo brano è uno strano ibrido tra reggae, punk e new wave (qualcuno ha detto Police? Beh, il periodo è lo stesso), dominato dal basso di Bruce Foxton, l’alter ego di Paul dell’epoca, la cui carriera non si riprese mai dallo scioglimento dei Jam, avvenuto nel 1982 all’apice del successo del gruppo.

2. The Jam – That’s Entertainment (1981)

Idealmente, la carriera solista di Paul Weller comincia con questo brano. Che è vero, è del 1981, prima fase della carriera, eppure qui c’è già tutto: l’amore per la ballata ma con una vena arrabbiata, il realismo sociale dei testi, la timbrica scura della voce sostenuta dalla chitarra acustica, il brit pop prima ancora che fosse lontanamente nella testa di qualcuno. O se è troppo azzardato farlo risalire già a questo brano, mettiamola così: nell’81 i Jam cominciavano davvero a stare stretti ad un autore come Paul.

3. Style Council – You’re The Best Thing (1984)

Il passo successivo, dunque, fu fondare gli Style Council, con quell’altro geniaccio del tastierista Mick Talbot: un gruppo senza una formazione fissa, più un collettivo, che spaziava praticamente in ogni genere, con un occhio di riguardo per tutto quello che si può catalogare alla voce “black music”. Disco, soul, funk, r&b, jazz, easy-listening, persino qualche tentativo rap e house: per sei anni, dal 1983 al 1989, Weller e Talbot hanno sperimentato tutto lo sperimentabile, con qualche azzardo di troppo ma anche qualche capolavoro. Come questa smoothissima You’re The Best Thing, uno dei rari pezzi di Paul che capita ancora di sentire su qualche radio italiana. L’incastro delle voci è magistrale, la chitarra brasilianeggiante arpeggiata in punta di dita, l’attesa del ritornellone che finalmente arriva, puntellato dagli archi: piaccia o no, è innegabile che sia una pop song coi controfiocchi.

4. Paul Weller – Uh Huh Oh Yeh (1992)

Sciolti anche gli Style Council, è il momento per il nostro di mettersi in proprio e provare a tirare le fila di quanto fatto in precedenza, senza rinunciare a provare un’ulteriore strada nuova. Ascoltando questa Uh Huh Oh Yeh, che apre il primo disco a nome (e titolo) Paul Weller, cadenzata da un trascinante groove di batteria che fa il verso all’r&b ma porta con sé un arpeggio di chitarra inequivocabilmente byrdsiano, un loop di fiati electro-funk, un cantato che riesce magicamente a tenere tutto insieme, l’impressione è che il cortocircuito tra passato e presente sia perfettamente riuscito.

5. Paul Weller – Sunflower (1993)

Dal secondo disco solista, Wild Wood, un’altra gemma: anche qui un arpeggio che entra subito in circolo e un sound “chitarroso” che bilancia le venature psichedeliche con un riff più muscolare. La voce di Paul si muove invece in territori black, ben supportata dai cori, e il Moog rifinisce il tutto inserendosi negli spazi residui. Lo stile di Weller, pur nelle infinite variazioni, inizia ad essere un vero e proprio marchio di fabbrica, e all’epoca c’è chi comincia (eccome) a prendere nota.

6. Paul Weller – You Do Something To Me (1995)

Certo, l’amore per la ballata, di cui dicevamo più su, e i Beatles, poco sotto. Ma di talento ce ne vuole, e tanto, per scrivere un brano come You Do Something To Me: nella sua apparente semplicità, scandita dalle note del piano (suonato dallo stesso Weller, che nei suoi dischi suona praticamente di tutto, pur avvalendosi di musicisti di caratura internazionale) con la splendida chitarra sul fondo e il cantato, sussurrato prima e deciso poi, ad occupare il centro della scena, è un manuale di scrittura (e arrangiamento) che potrebbe essere collocato alternativamente in un qualsiasi altro periodo a caso della storia della musica pop e svetterebbe allo stesso modo.

7. Paul Weller – The Changingman (1995)

Tratto, come il precedente, da Stanley Road, uno dei must have della discografia di Weller, ecco il pezzo-manifestoI’m the changingman, built on shifting sands / I’m the changingman, waiting for the bang. Descrive alla perfezione la curiosità ma anche l’inquietudine del cantante oltre che dell’uomo, di cui la stessa ex-moglie, la cantante Dee C. Lee (già negli Style Council), denunciava la tendenza ad autosabotarsi quando le cose andavano troppo bene (e i fan dei Jam avranno probabilmente sottoscritto in massa).

8. Paul Weller – Friday Street (1997)

Altro classicone, questa volta da Heavy Soul, disco più ruvido rispetto ai precedenti ma sempre ricchissimo di idee melodiche: in anni in cui il brit pop la fa da padrone, Weller rimane semplicemente fedele ai propri intenti trovandosi sempre in linea con lo spirito del tempo; e sono in tanti, tra critici e musicisti – coi fratelli Gallagher in prima linea -, a riconoscergli il ruolo di anticipatore, risalendo sin dai suoi primissimi lavori. Ascoltando questa Friday Street, puntellata meravigliosamente dai backing vocals e affogata nei riverberi delle chitarre, non si può che concordare.

9. Paul Weller – From The Floorboards Up (2005)

Le scorribande coi Jam sono ormai distanti quasi tre decenni, eppure ecco un pezzo che sembra riportare a quell’urgenza giovanile: strumentazione essenziale, chitarre nervose e rari cori che attingono all’r&b, su un cantato che fa della ritmica la sua arma vincente, in poco più di due minuti e mezzo. Tutto è molto più studiato, controllato, la tensione è calcolata per esplodere nei momenti giusti: la distensione arriva con altri brani dell’album (As Is Now), o della scaletta nei concerti (dove From The Floorboards Up manca di rado).

10. Paul Weller – Long Long Road 2017)

Difficile riassumere gli ultimi dieci della carriera di PW in poche righe, basterebbe un’opera monstre come 22 Dreams (del 2008) a scoraggiare qualunque temerario amante della sintesi. Ci limitiamo perciò a pescare un’ultima chicca, ovvero il singolo che ha anticipato il suo ultimo lavoro, dall’emblematico titolo A Kind RevolutionLong Long Road, con il crescendo di piano e chitarra che trascina dolcemente alla maestosa apertura del ritornello, coi suoi archi rilucenti e i cori gospel, è una ballata dai tanti rimandi al passato (Let It Be, per dirne uno) che riesce comunque a suonare fresca e coinvolgente, a emozionare e a sorprendere: come possa un artista che ha festeggiato i quarant’anni di carriera avere ancora in serbo delle perle di questo genere rimane uno splendido mistero per critici e fan. E dal vivo non delude mai, garantito al limone.