Un mare di lacrime accompagna la band capitanata da Mike Kinsella durante il live di giovedì 15 giugno al Magnolia di Milano.
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_di Luca Cescon
Un EP, uscito nel 1998, e due album, uno l’anno successivo e l’altro nel 2016. Tanto è bastato agli American Football per entrare nel cuore di migliaia di fan in tutto il mondo, chi più chi meno rappresentato da quel genere “emo” forse mai compreso appieno dal giornalismo di settore. Le differenze al suo interno, come per tante altre correnti musicali e culturali, sono difficili da ripercorrere con la mente, ma per i fan degli AF basterebbe citare Cap’n Jazz, Mineral, Sunny Day Real Estate e Joan of Arc per far tornare ai piedi un paio di scarpe bucate e polverose, un berretto da baseball e una maglia comprata al negozio di vinili sotto casa.
A queste band, come a tante altre che si sono barcamenate tra scioglimenti e pause, si deve il grande onore di non aver mai smesso di essere oggettivamente impeccabili a livello emotivo: dal palco sembra scendere una ventata di malinconia che raramente si trova in altre performance, coadiuvata da una bravura live che tali gruppi all’inizio forse nemmeno avevano nel loro repertorio. Chiaramente il secondo lavoro della band, anch’esso intitolato “American Football”, non avrà mai la presa dell’album di debutto, ma è riprova di una volontà di mettersi in gioco sfidando la sorte di un mondo discografico e mediatico completamente diverso da quello di fine millennio.
La prima data della loro carriera in Italia si svolge in quel Circolo Magnolia che ormai è uno dei locali più attivi del nord Italia, grazie a una programmazione che propone musica per tutti i gusti. La band dell’Illinois viene (purtroppo) anticipata da due opener italiani (Giorgieness e Les Enfants), che ahinoi fanno rimpiangere di non aver trovato coda in autostrada: il loro tentativo di avvicinarsi all’indie, o quantomeno al rock, si riduce ad un mix di brani completamente sconnessi tra loro e senza un minimo richiamo al sound degli headliner…
Per fortuna la sofferenza viene annegata tra birra e cibo nei pressi del fornitissimo stand che, insieme ad altre aree adibite a drink e merch, costruisce una bella atmosfera “da spiaggia” davvero rilassante.
«Kinsella dà tutto ciò che può, così come gli altri componenti, sui quali spicca uno Steve Lamos in stato di grazia, sdoppiato tra batteria e tromba»
Gli American Football scelgono come sfondo del loro concerto la copertina del secondo album, partendo proprio con la opening track “Where are we now”, amata e odiata dal pubblico in fase embrionale di ascolto nel corso dello scorso anno, ma comunque pezzone intimo dall’intro in crescendo che forse rappresenta il meglio che la band poteva tirare fuori dopo anni di assenza. Già dai primi brani tra il pubblico serpeggiano le classiche frasi “di protesta” nei confronti di un frontman non perfetto, ma che col passare del live vengono man mano dissipate da una performance impeccabile quantomeno dal punto di vista musicale. Kinsella dà tutto ciò che può, così come gli altri componenti, sui quali spicca uno Steve Lamos in stato di grazia, sdoppiato tra batteria e tromba.
I pezzi chiaramente colpiscono duro tutto il pubblico, stipato in religioso silenzio (tranne durante i pezzi più famosi) con la birra in una mano e i fazzoletti nell’altra: ogni traccia è una botta al cuore di malinconia, sentimento, passione, insomma di emotività. Tutto scorre con la precisione tipica di una band che nonostante la discografia al limite dell’inesistente ha capacità tecniche personali davvero elevate, e una professionalità di tutto rispetto.
Il live, dopo una breve pausa a metà, riprende con quel capolavoro che è “Stay Home”: raramente ci si trova davanti a una canzone così toccante, e la commozione si percepisce appieno tra le centinaia di presenti. A seguire altri brani nuovi, tra i quali spicca “Home is where the haunt is”, ad anticipare il gran finale con “Never meant”, il brano che ha segnato quella generazione underground passata tra grunge, punk e hardcore, ma colpita duro soprattutto dalla melodia di Kinsella & Co.
Gli AF, schivi ma mai scortesi, poco dopo il live si presentano in mezzo al pubblico per foto e autografi di rito, confermando un’umiltà molto rara di questi tempi segnati dall’apparire prima dell’appartenere.