[INTERVISTA] L’affresco surreale dei Pashmak

I Pashmak ci raccontano il loro ultimo disco “Indigo”, tra sinestesia e contaminazione di generi.

Ci troviamo al Blapstudio di Milano per incontrare una delle band più promettenti della sottocultura musicale meneghina: quattro chiacchiere con i Pashmak, con cui si è parlato del loro sound (un mix di onde elettroniche e influenze indie, caratterizzato da elementi eterogenei), processo creativo e approccio sinestetico.

_di Erika Zolli

La vostra musica è stata definita come “visionaria, pregna di ecletticità e creatività nell’accostare sonorità e strumenti insoliti”. Quanto la contaminazione dei generi e l’esplorazione delle potenzialità delle nuove tecnologie hanno influito sulla creazione della vostra musica?

Martin: L’uso delle nuove tecnologie è stato molto importante, man mano abbiamo capito come queste potevano determinare il modo in cui lavoravamo. In particolare nell’LP la lavorazione è stata una particolarità: generalmente iniziavamo suonando i pezzi,  li arrangiavamo in sala tutti insieme e registravamo per tenere a mente quello che avevamo creato. L’LP è stato invece completamente fatto su Ableton. Eravamo davanti al computer, registravamo parte per parte e questo apriva molte possibilità. In questo modo abbiamo imparato delle cose e ne abbiamo anche capito i limiti.

Damon:  Quando scriviamo pezzi nuovi mettiamo in tasca quello che abbiamo imparato dai dischi precedenti, cercando sempre di uscire dal percorso che abbiamo già tracciato. Abbiamo capito che il metodo con cui vai a trascrivere musica influenza drasticamente il risultato. Il nostro tentativo era di uscire dal percorso fatto in precedenza, cominciando a scrivere al computer per andare a pulire l’eccesso. Ci siamo spostati più sul lato della produzione, meno sul lato del suonare insieme, e di questo un po’ ne ho risentito. Ora stiamo tentando di capire come uscire da questo metodo in quanto uno dei più grandi limiti della produzione al computer è che ci lavora un’unica persona e ti ritrovi nella condizione di dover razionalizzare un tentativo espressivo, quando magari vorresti unicamente liberare la mente e suonare qualcosa in automatico come se fossi in sala prove.

Martin: Mentre prima era tutto troppo poco fisso ed era molto difficile avere sotto controllo quello che stavi facendo, in quanto improvvisato, questo metodo era invece estremamente rigido, troppo controllato e sintetizzato. Il più grande limite era appunto che non suonavamo assieme. Se tu hai quattro persone che improvvisano, queste si influenzano sul momento creando una materia viva.

Damon: Abbiamo sofferto molto la produzione al computer, ma essendo un mezzo estremamente potente, la domanda che ci si è posta davanti era come riuscire a usare il computer in modo creativo e impulsivo. In realtà si potrebbe pensare di andare a fare diversi tentativi di produzione e di mixaggio suonati dal vivo con le tecnologie che ci sono in ballo. Per tutti i nostri futuri lavori la domanda che ci faremo sarà proprio che tipo di metodo vogliamo utilizzare.

Antonio: Nella produzione dell’LP non abbiamo fatto errori, c’è stata solo l’attitudine sbagliata. L’errore è come vivi la lavorazione al computer. La composizione al computer può essere anche estremamente divertente, non è detto che debba essere un qualcosa di asettico. il punto è proprio l’attitudine che si ha con le macchine. Bisogna solo iniziare a divertirsi di più. E’ chiaro ovviamente però che dopo otto ore davanti a un computer a un certo punto ti lobotomizzi.

Damon: Una cosa importante che ci siamo detti all’uscita di questo disco è che siamo riusciti a slegarci dalle parti: tutti quanti possiamo fare tutto e ognuno può dare delle idee. Il risultato è che non ci sono parti che appartengono a uno o all’altro, né ci sono parti che vanno dall’inizio alla fine. Probabilmente il passo che faremo nel nostro prossimo disco è che non si sentano le parti singole dei vari strumenti, facendo diventare così il tutto una massa organica, una sorta di creatura vivente.

Ogni vostro pezzo è come se contenesse al proprio interno un mondo particolare, ognuno può vivere di vita propria perché ha una storia da raccontare. Qual è stato il  processo creativo che avete utilizzato per creare quella reale completezza nell’insieme delle canzoni?

Antonio: I pezzi partono da una base, da una tessitura, fatta da Damon. Poi ognuno dà la sua struttura. La natura del pezzo viene data dalla sensazione che si ha quando si suona. Ogni volta che suono un pezzo mi emoziono e l’emozione arriva perché c’è.

Damon: Sono canzoni con una corrispondenza ben definita e hanno un significato interno. I primi dischi avevano una base molto psichedelica. Quando mi immaginavo una fruizione di musica mi immaginavo una persona che se l’ascolta da sola sul letto con gli occhi chiusi, permettendo una fuga dalla realtà o un viaggio verso una meta sconosciuta per trovare un equilibrio. Inizialmente quando scrivevo i pezzi avevo sempre in testa immagini precise e ben definite, che magari erano scollegate dalla canzone, ma l’obiettivo era proprio il tentativo di per sé ad arrivare coi suoni e con il testo verso quella direzione visiva.

Su “Indigo” invece le cose sono cambiate, qui abbiamo cominciato a scrivere musica scollegata dalla canzone. C’era stato un periodo in cui ascoltavamo i pezzi e dicevamo che mancava qualcosa e non c’eravamo accorti che quello che mancava era la ricerca del significato. Se la musica ha un significato al suo interno, ha anche della vita dentro. Il nostro tentativo è molto in contrasto con ciò che ora va di più. Attualmente c’è una continua ricerca del quotidiano, soprattutto in Italia, Noi cerchiamo il più possibile di tendere a un modello ideale, di dipingere un paesaggio inesistente, di crearne uno surreale. A me piacerebbe tendere molto verso il mito. In questo momento storico i miti stanno morendo, manca proprio la figura di un eroe che faccia qualcosa oltre le regole scritte, che esageri, che disegni una strada che tutti pensavano non fosse percorribile. Io sento davvero una mancanza di una figura così. “Il punto non è entrare all’interno di una scena e andare in alto”, dice David Byrne, “ma è di creare una sottocultura, che è molto più importante” e credo che proprio questo sia il ruolo del mito.

Quanto è importante nella vostra musica il contrasto tra sintetico e acustico?

Damon: Credo che sia sempre una questione di metodo: usare strumenti diversi ti porta ad avere risultati diversi. Mi viene da citare i Battles dove il chitarrista dice: “il mio tentativo è quello di fare suonare la chitarra come un synth e il synth come una chitarra, c’è una motivazione? No”. Credo che sia proprio questa sensazione che ti permetta di evolvere.

Martin: La cosa più interessante che abbiamo oggi è la varietà timbrica. La prima epoca nella storia della musica in cui abbiamo a disposizione tutti i timbri del passato, varietà nel tempo e addirittura anche varietà nello spazio, prendendo strumenti da vari paesi. Come hai detto tu quindi, si può creare così un mix di acustico e sintetico perfetto.

Antonio: E’ davvero molto interessante il mix tra sintetico ed acustico in quanto ti da un’apertura di ricerca estremamente ampia che a volte ti può portare alla follia in quanto, per cercare il suono di uno strumento, ci puoi impiegare anche una settimana.

Come considerate il panorama musicale italiano? Ci sono band del sottosuolo musicale che consigliereste di ascoltare?

Antonio: Di band un po’ più conosciute io ho sempre apprezzato gli Zen Circus. Un altro ragazzo che suggerisco è Berg, è davvero bravo e ha un progetto di alto livello.

Martin: Io personalmente ascolto pochissima musica italiana. Periodicamente ci riprovo. Ci sono gruppi che ascoltavo da piccolo, come i Verdena o Il Teatro Degli Orrori, che anche se li riascolto ora mi piacciono sempre. Un gruppo di nostri amici invece molto bravi sono i Belize, che stanno crescendo molto e gli auguriamo ogni bene. Facciamo comunque sempre più fatica a ritrovarci in quello che musicalmente sta succedendo in Italia, anche per il discorso sui contenuti che ha fatto prima Damon.

Damon: Come gruppi attuali consiglio i Manitoba e gli Ishaq, quest’ultimo è un gruppo veneto di un ragazzo che si chiama Isacco Zanon, nella loro musica c’è una forte ricerca di serenità che lui vuole comunicare e questa cosa emerge in ogni canzone. Poi un altro gruppo che consiglio è Sycamore Age.

Se dovessi definire il vostro gruppo con una parola utilizzerei “sinestetico”. Quanto questo concetto è importante nella vostra musica?

Damon: L’approccio sinestetico è nato dall’incontro con una ragazza americana che conobbi anni fa e con cui ebbi un colpo di fulmine devastante. Questa persona aveva una malattia del cervello che è appunto la sinestesia: la parte del cervello legata alle sensazioni tattili e quella legata alle sensazioni sonore non sono separate, per cui ogni suono corrispondeva a una sensazione tattile sulla sua pelle. Ovviamente da musicista questa cosa mi aveva completamente affascinato e da lì nacque tutto il discorso sulla sinestesia presente nei nostri dischi. Questo incontro infatti era successo ancora prima che scrivessi il primo disco.