_di Marco Patrito
Domenica sera c’è stata Inter-Napoli. Con il sogno scudetto sfumato per entrambe già da tempo, in palio c’era l’aggancio al Milan per gli interisti e l’avvicinamento al secondo posto della Roma per i partenopei. Insomma, la sfida metteva di fronte due squadre rappresentative del nostro campionato, una in particolare (i nerazzurri) grande delusa che ha mancato tutti gli obiettivi che la società si era posta a inizio stagione. In tutto ciò io non l’ho vista. Non l’ho vista perché ho preferito fare cena con gli amici. Ciò non toglie che una volta rincasato non abbia controllato il risultato e letto qualche articolo a commento.
Ovviamente si parlava di Nagatomo e dell’errore che aveva permesso al Napoli di segnare ma soprattutto, ed è questa la cosa che mi ha colpito, si accostava il giapponese a Gresko. Preso da un raptus di curiosità omicida, all’una di notte, ho iniziato ad interrogare Google: non, come imporrebbe la tradizione di ricerca notturna, sulla velocità cui riescono a correre i pinguini o sul numero di dita dei piedi dei Bonobo, ma a proposito dell’ex giocatore dell’Inter.
Che fine aveva fatto? E così ho passato in rassegna filmati, articoli, interviste, testimonianze, per giungere a due conclusioni: la prima è che si, Gresko fece pareggiare la Lazio con uno svarione incredibile, ma la seconda è che tra i due episodi esiste una sottile differenza. Il terzino slovacco aveva fatto pareggiare la squadra avversaria mentre la propria era in corsa per lo scudetto, il piccolo samurai invece ha di certo regalato una rete, ma il massimo obbiettivo cui può aspirare l’Inter è l’ingresso in Coppa Italia partendo dagli ottavi e non dal terzo turno eliminatorio. Una differenza non così lieve, dopotutto.
Sono passati esattamente quindici anni da quando si è consumata forse la più grande catastrofe sportiva del calcio italiano. Sintetizziamo i fatti: domenica pomeriggio, ultima giornata di Serie A. La classifica dice che l’Inter ha 69 punti, uno in più della Juventus e due sopra la Roma. La squadra di Milano è costretta a vincere per togliersi ogni dubbio e appiccicare sulla casacca uno scudetto che manca da 13 anni. Il campionato per la squadra di Cùper non era partito con i migliori auspici, causa assenze pesanti durante i primi turni ( vedi alla voce: Ronaldo e Vieri): eppure, a 90 minuti dall’epilogo, i nerazzurri guardavano le avversarie dallo scalino più alto.
Ronnie e Bobo, 14 partite insieme in tre stagioni
Ad attenderli c’era una Lazio che, a detta di giornalisti, esperti, appassionati e tifosi speranzosi, non aveva più stimoli ed era decisamente inferiore sotto ogni punto di vista. Insomma, i pronostici favorevoli ricacciavano gli spettri negli abissi dell’impossibilità che qualcosa andasse storto. L’Inter parte bene con un gol di Vieri che insacca una palla sfuggita dalle mani di Peruzzi. Poi arriva il pareggio di Poborsky e infine ancora l’allungo nerazzurro con un colpo di testa di Di Biagio. Primo tempo quasi nel cassetto. Quasi.
A un minuto dallo scadere dei primi 45’ accade l’impossibile: cross dalla sinistra deviato da un difensore dell’Inter che allunga sul seconda palo dove arriva agevolmente il giovane terzino Gresko che, invece che spazzare o mandare prudentemente in angolo il pallone, opta per uno scellerato retropassaggio su cui il solito Poborsky si avventa senza sbagliare. Duplice fischio, squadre negli spogliatoi, stadio ammutolito di fronte al tabellone che fissa senza pietà un risultato impensabile: 2-2.
Gresko a terra impantanato dopo lo scellerato retropassaggio che ha permesso a Poborsky di battere Toldo
“Lui sapeva di andar via. Ma era talmente in lite con il mondo che quella partita la giocò alla morte. Era lontanissimo per ideologia politica da quei tifosi che ci chiedevano di perdere, e altrettanto distante dalla maniera italiana di vivere le partite” Stefano Fiore, ai tempi centrocampista biancoceleste, parla di Karel Poborsky.
Nulla era ancora perduto: mancava un’intera frazione di gioco in cui l’Inter avrebbe potuto tornare in vantaggio e tenere definitivamente lontana la vecchia signora che nel frattempo passeggiava vincendo 2-0 a Udine. Ma nel secondo tempo a entrare in campo è solo la Lazio. Ronaldo e compagni appaiono distratti, impauriti, fiacchi. Semplicemente crollano, sotto i colpi dell’ex Simeone e dell’attuale tecnico biancoceleste Simone Inzaghi. 4-2 Lazio.
Quando a cadere sono i giganti il boato è enorme: un boato composto dal silenzio dell’Olimpico, che quel giorno si era trasformato in una succursale di San Siro, con bandiere raffiguranti il biscione sventolanti in tutti i settori, dalla voce concitata e incredula dei giornalisti e dal riverbero dalle radioline sparse in tutta la penisola, attente agli avvenimenti di Roma. A Udine intanto prendeva corpo la notizia che l’Inter aveva perso e che la Juve, vincente in Friuli, era campione d’Italia.
Ma al danno si aggiunge anche la beffa: la Roma aveva espugnato il Delle Alpi e scavalcato l’Inter, che così precipitava al terzo posto. In novanta minuti la squadra di Milano aveva assaporato la speranza di conquistare il tricolore, la gioia di esserci quasi riuscita, fino al gusto amaro che rimane in bocca stando in piedi, o meglio, in ginocchio, sul gradino più basso del podio.
“Per me fu una tragedia, dopo il goal volevo quasi sparire dal campo, ma ero un professionista, e giocavo per i colori biancocelesti” cit. Diego Pablo Simeone, ex Inter, che segnò il 3-2.
Di quella giornata mi sono rimaste impresse alcune immagini, spezzoni significativi, attimi eloquenti. La prima è il pianto scomposto di Ronaldo, seduto in panchina dopo essere stato sostituito. Quella per lui fu l’ultima partita con la maglia dell’Inter. Dopo poche settimane avrebbe vinto il Mondiale in Corea e firmato per il Real Madrid.
Poi c’è una breve sequenza che ritrae un Materazzi sconvolto rivolgersi ai giocatori della Lazio dicendo “Io vi ho fatto vincere uno scudetto a Perugia”, riferendosi allo scudetto perso dalla Juventus 3 anni prima sul campo della squadra umbra in un pomeriggio molto simile a quello appena vissuto con la maglia nerazzurra. La terza immagine è quella di Marcello Lippi, ai tempi allenatore della Juve, che avendo ricevuto la notizia del vantaggio della Lazio lo comunica con gesti lenti e discreti ai suoi giocatori in campo, mentre alle sue spalle, in un contrasto emozionale intenso, il pubblico bianconero esplode di gioia.
L’ultima è lo scorcio su piazza San Carlo a Torino, dove 100.000 persone sono scese in piazza per festeggiare lo scudetto. Proprio quest’ultima è la più forte, credo. È un frammento che dimostra come i tifosi piemontesi si fossero preparati all’impossibile, alla remota eventualità che potessero vincerlo, quello scudetto. La differenza si è giocata proprio lì probabilmente: l’Inter non aveva messo in conto di dover scendere in campo a sudarsi la vittoria, l’aveva data per scontata e perciò, pur con un intero tempo a disposizione, aveva assistito e contribuito al proprio suicidio sportivo.
Antonio Conte senza freni negli spogliatoi del Friuli
E Gresko? Appesi gli scarpini al chiodo, ora fa con successo l’impresario teatrale. Gresko è un simbolo. È la persona che viene scelta dal caso per diventare portatrice di un messaggio universale, di una lezione. Gresko rappresenta l’uomo qualunque costretto suo malgrado a diventare protagonista, a caricarsi di un fardello, a sbagliare quando tutti sono sicuri che nulla potrà andare storto. Gresko è come paperino, sfortunato ma proprio per questo iconico.
“Tutti noi volevamo quel titolo, e la delusione di conseguenza fu grande. Sinceramente, però, trovo poco sensato parlare di un fatto avvenuto quindici anni fa: la vita va avanti e arrivano sempre nuove sfide”. Vratislav Gresko, in un’intervista concessa alla Gazzetta dello Sport due anni fa.
Gresko è destinato a rimanere un unicum, un momento irripetibile allo stato attuale delle cose. In un campionato a 20 squadre, con un gap pressochè incolmabile tra le prime della classe, ma anche tra chi vince (la Juventus) e il resto della Serie A, è impossibile che un giocatore solo abbia nelle mani il destino della squadra, e che la lotta scudetto si decida all’ultimissimo minuto. Difatti la nascita di questo mito risale a uno degli ulitimi anni in cui la serie A era a 18 club, rendendo doveroso riflettere se non sia meglio tornare ad una formula come quella, che permetteva la nascita di scontri epici e novelli eroi e anti eroi, come il nostro anti-eroe preferito. Insomma, Gresko siamo noi, tutti noi. Perciò lunga vita ai Gresko.