Come si sta evolvendo il rapporto tra mappa ed esperienza di gioco nei titoli più quotati sul mercato videoludico?
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_di Matteo Billia
In una poesia di Montale, l’autore descrive il suo tentativo di cogliere una falla nella realtà, voltandosi di scatto alle sue spalle, con la volontà (e il terrore) di sorprendere il nulla al di sotto di tutto, in un momento in cui il tessuto del reale non si è ancora intrecciato sotto i suoi occhi.
E’ questo un tema caro ad un certo tipo di filosofia esistenzialista, che ipotizzato precocemente, ha degli aspetti in comune con la logica di alcuni media contemporanei.
La grande illusione del cinema e delle fiction si basa infatti sullo stesso principio: ciò che non è inquadrato (cameramen, macchine da presa, microfoni, luci e operatori) si trova nel vuoto spettacolare che al pubblico non è dato conoscere. A quest’ultimo è dato solo il susseguirsi delle briciole di pane che l’autore, invisibile, lascia cadere per rendere persuasivo il suo messaggio (più raffinatamente o meno).
Nel contesto di un videogioco, questa inevitabile visione del mondo che si intreccia sotto i nostri occhi, dovuta ai limiti dell’hardware e al conseguente limite della lunghezza di campo, è una costante a cui i videogiocatori cercano di non far caso. Per risultati maggiormente realistici sono state spesso scelte ambientazioni claustrofobiche o affollate da ostacoli visivi.
Abbiamo accennato, in un nostro articolo precedente, come il nuovo Zelda: A breath of the wild sia innovativo e ben equilibrato, soprattutto nella coerenza e nell’equilibrio della costruzione di un mondo di gioco, privo di apparenti falle nel suo tessuto connettivo. E questo riguarda non solo l’aspetto grafico, ma soprattutto le dinamiche di gameplay, la visione del protagonista e della mappa. Queste, infatti, sono legate da una logica necessaria che guida il giocatore, senza lasciarlo a corto di cose da fare, ben poche delle quali sono superflue al raggiungimento dell’obiettivo finale.
La geografia diventa una mappa astratta della struttura di gioco, in base alla quale si sovrappone una linea guida delle azioni che il giocatore può svolgere.
«Quando i limiti del mondo sono giustificati dall’impraticabilità del territorio e sono posti in lontananza rispetto al percorso prestabilito, siamo di fronte ad un livello superiore di credibilità»

Come molti di voi sapranno, in molti rpg, gdr e strategici la mappa e l’esperienza di gioco sono estremamente connesse, e una rappresenta la visione generale, l’altra quella particolare.
Quando invece, come in molti altri titoli, la mappa e l’esperienza di gioco rappresentano due visioni differenti, il game designer di turno deve saper integrare l’una alle funzioni dell’altra.
Le soluzioni proposte sono state innumerevoli, basti pensare agli abusati indicatori di direzione nelle serie di Bioshock e Dead Space, e alla comunissima integrazione della mappa all’equipaggiamento del protagonista, come nel caso di Zelda.
Ma in Breath of the wild, il mondo di gioco è stato reso leggibile anche senza l’ausilio della mappa, dando importanza alla verticalità, alla lunghezza di campo e all’identità del territorio, permettendo al giocatore di distinguere i punti di accesso ai Dungeon dal paesaggio naturale.
Le differenze strutturali tra gli open-world e i giochi in cui il percorso è prestabilito (in cui viene solo data l’illusione di un mondo circostante) sono di tipo descrittivo-narrativo e interessano la percezione dei limiti dell’universo rappresentato.
In un videogioco in cui i limiti del mondo di gioco sono fisicamente raggiungibili, la magica sospensione dell’incredulità si frantuma contro un’invisibile parete virtuale.
Quando i limiti del mondo sono invece giustificati dall’impraticabilità del territorio e sono posti in lontananza rispetto al percorso prestabilito, siamo di fronte ad un livello superiore di credibilità.
Se poi i limiti del mondo non esistono (o quasi), ci sembra di vivere in una dimensione parallela.
E’ il caso di alcuni titoli nei quali il mondo di gioco è generato algoritmicamente, come in No man’s sky e Minecraft.
E’ questa una strada sperimentale promettente ma poco sfruttata, come è anche interessante (ma più largamente utilizzata) la generazione casuale di livelli, come in Nuclear Throne, The binding of Isaac e Downwell. Qui l’esistenza di limiti ben definiti (e non camuffati) è ampliata dall’imprevedibile generazione delle situazioni di gioco.
In Breath of the wild, utilizzando un trainer, è possibile esplorare le aree situate oltre i confini della mappa. E il risultato è che ci si trova di fronte all’orizzonte sconfinato tracciato dalle frastagliate cime dei monti in lontananza (che ahimé saranno sempre irraggiungibili, ma non per questo prive di una parvenza reale). Tra noi e loro un mondo virtuale che si disgrega, mostrando alcune curiose forme di crateri, piante di edifici mai realizzati, poligoni volanti, terreni privi di fisicità…
Un mondo di confine misterioso, che ha fatto ipotizzare nasconda qualche segreto, o un mondo ancora in costruzione. E’ questo il confine invalicabile di ogni videogioco. La terra di confine tra l’algoritmo e la fine della simulazione. L’infinito informatico.
