10 canzoni per entrare nel mondo di Brian Molko e co. In attesa dei prossimi concerti italiani a Collisioni Festival, Firenze Rocks e Taormina.
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_di Enrico Viarengo
Ci sono band che tornano in voga a distanza di decenni dal loro successo e mietono vittime tra i più giovani, band dalle reunion telefonatissime pronte a infilarsi in una DeLorean e apparire sul palco di qualche festival estivo fiere della parola “sold-out” che capeggia sulle pagine dei social. Non i Placebo.
Primo, perché i Placebo, nel bene o nel male, è da 20 anni che sono in giro, in studio di registrazione o a suonare da qualche parte nel mondo. Secondo, perché i Placebo sono davvero troppo anni ’90 anche per trend revivalista attuale.
I Placebo sono come Valvonauta dei Verdena, solo che i Verdena poi hanno fatto mille cose diverse, mentre i Placebo sono rimasti i Placebo per 20 anni. Ecco, i Placebo li conosciamo tutti, ma quanti di noi ancor li ascoltano? Pochi, forse. Che è un peccato, perché i Placebo dei primi album sono lì che aspettano che qualcuno torni indietro a ripescarli, che qualcuno dica “certo che Black Market Music è proprio un gran disco”, che qualcuno vada oltre l’estetica dell’androgino Brian Molko e si rituffi a capofitto sulla musica della formazione inglese per ritrovare quelle burrasche adolescenziali e forse qualcosa in più in quelle chitarre abrasive e in una voce indubbiamente unica.
Su Youtube c’è la loro intera discografia: motivo in più per ripercorrere la loro storia in dieci tappe, in attesa del loro ritorno in Italia quest’estate a Barolo per il festival Collisioni e in Toscana per Firenze Rocks.
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Bruise Pristine
Tutto ebbe inizio con il primo singolo Bruise Pristine, qui nella versione originaria del 1995, singolo uscito per Fierce Panda in largo anticipo rispetto al disco d’esordio. Molko, all’epoca 23enne, tradisce fin da subito il suo nasale ottimismo (“We were born to lose”) e in segno di protesta inventa una nuova accordatura (F-A-D-G-C-C, un marchio di fabbrica a venire). Bruise Pristine, quella che conosciamo tutti, uscì poi nel 1997, con quegli accorgimenti che ogni buona major come la Virgin richiede. Che il pezzo avesse un gran tiro già nella sua versione “zozza”, però, è innegabile.
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Pure Morning
“A friend in need’s a friend indeed, my Japanese is better”, chissà perché poi. Il criptico biglietto da visita dei Placebo non era affatto studiato come singolo di successo: Pure Morning doveva in realtà apparire come b-side, ma la band decise di plasmare quel loop di chitarra e quei battiti da cantiere metropolitano in una filastrocca vincente che ti si appiccica in testa. Se Elio e le Storie Tese sono gli inventori della canzone mononota, Molko e soci andrebbero festeggiati come i precursori della reiterazione. Con la differenza che non esiste un essere umano nato tra gli ’80 e i ’90 che non si ricordi questo video in heavy rotation su MTV. Clicca qui ⊗ per ascoltarla
Every me and Every you
Con il terzo singolo da “Without you I’m Nothing” il trio è già pronto a scalare le classifiche: formato canzone più consono e un riff di chitarra a condurre il gioco, di quelli che a 16 anni fai sentire in cameretta al tuo amico che vuole suonare la batteria, però quello dei Placebo ha sempre suonato meglio. “Like the naked leads the blind / I know I’m selfish, I’m unkind / Sucker love I always find / Someone to bruise and leave behind”: la scrittura del buon Molko, mai didascalica, trasuda dolore e tanta onestà. O forse no? Clicca qui ⊗ per ascoltarla
Without you I’m Nothing
La vera chicca dell’album, la preferita dei fan e un bel documento storico di una delle collaborazioni più incredibili del rock. Immaginate l’emozione del buon Molko nel poter collaborare con il suo mentore musicale, roba da non dormirci la notte. David Bowie accompagna con la classe che l’ha sempre contraddistinto la lenta, funerea e dolente Without you I’m Nothin, con i suoi tick tock che rimandano a Drive dei R.E.M. (leggi qui il nostro focus sulla band di Michael Stipe) Qui però non c’è nessun violino a impacchettare il tutto, solo un assolo dissonante di poco conforto. Piaccia o meno, Without you I’m Nothing è l’esempio più lampante dello spirito “facciamo un po’ il cazzo che ci pare” della band. Nel 1998, dall’altra parte dell’oceano le Hole cacciavano fuori la loro Celebrity Skin; i Placebo preferivano invece sguazzare in quell’amarezza for fans only con una certa dose di coraggio. Clicca qui ⊗ per ascoltarla
Special K “live” a Sanremo
“Ci sembrava la reazione più adatta, a quel tempo. Eravamo scazzati perché nessuno ci aveva detto come era il Festival. Ci sembrava di essere finiti in mezzo a una sciarada. A nessuno gliene fregava assolutamente niente di noi. Quando venne il nostro momento, c’erano in platea tutti questi vecchi grassi in giacca e cravatta, con le loro donne in abito da sera. Qualcosa ha fatto click nella mia testa ed è scattata una reazione primordiale. Vaffanculo tutta ’sta roba, mi sono detto; non dovrei nemmeno essere qua! La sola cosa che mi è rimasta impressa nella memoria era la gente che dalla sala mi gridava pezzo di merda” – Brian Molko.
Un capolavoro: i Placebo al Festival, costretti a “recitare” la loro Special K in playback. Un pezzo di storia della televisione italiana, un incubo televisivo che può solo chiudersi con Megan Gale che pronuncia, imbarazzata, “La Liguria è bellissima”. Ma anche un pezzo di storia della band stessa, quella “band glam-rock con il cantante bisex” che in anni non troppo remoti rappresentava inesorabilmente un “diverso” sbagliato per le masse perbeniste. Platinette sì, Molko no. Soprattutto se in modalità irriverente distruttore di amplificatori.
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Slave to the Wage
La gioia nel poter citare i Pavement in una top 10 Placebo è tanta: Slave to the Wage nasce dal campionamento dell’intro di Texas Never Whispers; Malkmus e Kannberg figurano quindi come autori (il pensiero che i Pavement possano aver fatto due soldi con un singolone del Placebo mi regala altre fortissime emozioni). Il suono si è fatto più morbido, ma le chitarre stridono sempre, le melodie funzionano sempre e il Molko di “Black Market Music” è ancora ispirato. Clicca qui ⊗ per ascoltarla
Black-Eyed
Una batteria torrenziale e un basso solido come l’unico muro portante di quella “broken home” cantata dal buon Molko. Black-Eyed è la vetta di “Black Market Music” e insieme a Passive Aggressive e Blue American (questa da piangere sul serio) rappresenta una tripletta emozionale tanto intensa quanto sottovalutata. Sono i pezzi centrali dell’album più commerciale della band inglese e Molko si mette a nudo senza problemi, tra notturne ballate confidenziali e ammissioni di colpe: “I was never faithful / And I was never one to trust / Borderline and skitzo /And guaranteed to cause a fuss.”
Se poi ci aggiungiamo il crossover sperimentale di Spite & Malice, che unisce la cifra stilistica Placebo al rap più didascalico di Justin Warfield, si fa in fretta a considerare “Black Market Music” l’ennesimo – e forse ultimo – tentativo (riuscito) di smarcarsi da etichette di genere e a dimostrare di non essere soltanto una band inglese dai singoli usa e getta come tante. Clicca qui ⊗ per ascoltarla
The Bitter End
Nel 2003 i Placebo cercando di raccogliere i frutti del proprio lavoro in un quarto album in studio. “Sleeping with Ghosts” non è certo un capolavoro e soffre la presenza di qualche riempitivo, ma canzoni come il singolo The Bitter End, ormai così pop e orecchiabili da piacere anche alle massaie di Voghera, riassumono in maniera perfetta l’opera omnia dei Placebo. The Bitter End, forte di un finale da cardiopalma, schematizza il rock alternativo anglosassone degli ultimi 20 anni in poco più di tre minuti. Derivativa quanto volete, ma il timbro vocale di Molko continua a fare la differenza. Clicca qui ⊗ per ascoltarla
Bigmouth Strikes Again
Il buon Molko potrà risultare altezzoso ai più, ma il suo alter-ego da fan rispettoso e appassionato è costantemente venuto fuori: lo dimostrano le numerose cover re-interpretate senza forzature dalla band, spesso suonate anche dal vivo e tutte raccolte in un bonus disc di “Sleeping With Ghosts”: tra le tante, Running up that Hill di Kate Bush, Johnny and Mary di Robert Palmer, Where is my Mind? dei Pixies – riproposta live insieme allo stesso Black Francis – e questa Bigmouth Strikes Again, presa in prestito da sua maestà Morrissey per una rilettura con chitarre ululanti, non troppo lontane dalla versione misconosciuta dei Treepeople. Clicca qui ⊗ per ascoltarla
Jesus’ Son
Gli ultimi 10 anni dei Placebo non hanno fatto la differenza, questo va ammesso. Da “Meds” (2006) all’ultimo singolo Jesus’ Son i Placebo hanno tirato fuori una manciata di singoli più o meno dignitosi e si sono progressivamente tramutati in una rock band da stadio, aggiungendo synth in produzioni sempre più patinate e radio-friendly e palesandosi su palchi di mezzo mondo in formazione rimaneggiata con tanto di violinista sul palco. Giudicate voi questa Jesus’ Son: per chi scrive, il buon Molko è semplicemente invecchiato e il pre-pensionamento non nuocerebbe. Restano 20 anni di carriera, da poco celebrati, e 30 singoli da rivivere con nostalgia in questo tour che tocca anche l’Italia. Di quei 30 singoli qualcuno sarà meritevole di coda davanti al gazebo delle birre, è vero; ma la maggior parte, violino o meno, arriverà dritta al cuore. Clicca qui ⊗ per ascoltarla
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21 giugno – Placebo live @Taormina
23 giugno – Placebo live @ Firenze Rocks
16 luglio – Placebo live @ Collisioni Festival (Barolo, Piemonte)