Un’analisi che partendo dal sottovalutato “Bleeder” (seconda prova del regista danase dietro alla cinepresa) indaga il rapporto tra malavita e introspezione personale in Nicolas Winding Refn.
di Francesco Nardini – Cosa c’è di meglio – soprattutto al cinema – di vedere un protagonista debole e piccolo sulla carta che riesce a diventare grande e a sconfiggere avversari molto più potenti di lui? Ce lo insegna il cinema americano; ma proviamo a considerare “piccolo” non tanto il protagonista di un film quanto il film stesso. Bleeder, uscito nel 1999 in un numero limitato di sale europee, è chiaramente un piccolo prodotto, a cominciare dalle risorse economiche. Eppure diventa grande non appena ci si accorge dell’importanza che riveste nella filmografia del suo regista. Già, proprio quel Refn che col tempo si è ritagliato uno spazio fondamentale nel cinema degli anni duemila, e una grossa schiera di sostenitori in tutto il globo, diventando un vero e proprio cineasta-icona-feticcio.
A prima vista, Bleeder è il racconto di due storie d’amore: Leo (Kim Bodnia) e Louise (Rikke Louise Andersson) sono una giovane coppia di Copenaghen, che cerca di tirare avanti nonostante le mille difficoltà economiche. Ma la gravidanza di Louise e il comportamento invadente di Louis, il fratello di lei, infastidiscono Leo, la cui esplosione non tarderà ad arrivare. Un suo amico, Lenny (Mads Mikkelsen), commesso di una videoteca, si innamora di Lea (Liv Corfixen), cameriera in un piccolo ristorante, e prova a muovere i primi passi verso un amore apparentemente impossibile.
Fin dalla prima visione si notano alcuni fattori fondamentali che rendono il film il precursore di tutto ciò che Refn realizzerà in futuro.
Se nel primo lavoro del regista, Pusher, l’elemento crime era presente tanto quanto l’analisi psicologica del protagonista, con Bleeder il crimine viene in gran parte annullato dai drammi dei personaggi – Leo e Lenny in particolare.
E ciò accadrà di lì a poco in tutti gli altri film refniani, tra cui – i più eclatanti – Pusher ll e Solo Dio perdona, due thriller psicologici sull’incomunicabilità nel rapporto figlio-genitore. Chiaramente l’ambientazione malavitosa rimane, ma dopo il film del 1999, appunto, non va mai oltre il semplice sfondo.
Un altro elemento fondamentale che Bleeder porta alla filmografia di Nicolas Winding Refn è proprio Refn stesso. L’idea di fare del suo cinema un’autobiografia nasce dalla pellicola del 1999, che NWR definisce il suo film più personale.
La figura di Lenny è chiaramente riconducibile a quella del filmmaker danese, non solo per la passione sfrenata che entrambi nutrono per il cinema – da Mad Max a Lindsay Anderson – ma anche perché la Lea di cui il protagonista si innamora è interpretata da Liv Corfixen, al tempo fidanzata e ora moglie di Nicolas Winding Refn, l’unica e sola compagna nella vita del nostro.
Dopo Bleeder, tutti gli altri film del cineasta avranno un elemento autobiografico, o almeno personale. Per fare qualche esempio, Bronson, gioiello datato 2008, riflette sulla voglia di fama che sia il protagonista (soprannominato Charles Bronson) che Refn hanno avuto; Drive, celeberrima pellicola che ha consacrato il nostro a livello internazionale, racconta l’amore e il sacrificio per la moglie, ancora una volta figura predominante, come in Bleeder e in Fear X. Il fulcro di Solo Dio perdona è invece rappresentato dalle mani del suo protagonista, e Nicolas, come rivela in diverse interviste, da piccolo aveva una vera e propria ossessione per le mani, le proteggeva sempre.
La grandezza di un film spesso non sta solo nella sua eccellente resa visiva, ma anche nella sua capacità di fare da traino per tutto ciò che verrà successivamente. Con Bleeder, Nicolas Winding Refn ci è riuscito. Alzando poi il tiro nelle produzioni successive. Vedremo se continuerà a dare del filo da torcere ai “potenti”.