Moonlight: viaggio nell’identità sentimentale

Una delicata storia di formazione sull’essere neri nell’America di oggi, ma non solo. Il film diretto da Barry Jenkins porta a casa il premio più ambito nella notte degli Oscar 2017: la nostra recensione di Moonlight.

_di Pier Allegri 

«Ero un nanetto selvaggio. Proprio come te. Correvo scalzo per la città, con la luna piena. E una volta, correvo urlando di fronte a una vecchia come un’idiota. E questa signora mi ferma e mi dice: “Sotto la luce della luna, i ragazzi neri diventano blu. Anche tu sei blu. Ed è così che ti chiamerò: Blue»

Chiron è un bambino afroamericano che vive in quartiere di Miami minato dalla droga e dalla criminalità e segnato da povertà e violenza. In cerca di un posto nel mondo e di una identità, scoprirà nel corso della sua vita sé stesso, la sua voglia di tenerezza e la sua sessualità.

Tratto dalla breve pièce teatrale “In Moonlight Black Boys Look Blue” di Tarrel Alvin McCraney (premiato assieme a Barry Jankins con l’Oscar alla migliore sceneggiatura non originale), ”Moonlight” è un film in tre atti, tre come i nomi che accompagnano il protagonista Chiron (come Chirone, il centauro addestratore di eroi della mitologia greca) in altrettante fasi della sua vita: Little, Chiron e Black/Bambino, Ragazzo, Adulto.

«A un certo punto dovrai decidere da solo chi vuoi diventare. Non lasciare che qualcuno decida per te»

Il film di Jenkins è una delicata storia di formazione sull’essere neri nell’America di oggi ma non solo: questo capolavoro del cinema indie vincitore dell’Oscar al miglior film (dimentichiamo l’imbarazzo di domenica 26 febbraio..) è un romanzo in pellicola sulla educazione sentimentale di un ragazzo gay e di colore duro e tenero, leggero e grave, ma mai melenso o ricattatorio. La difficile costruzione di una identità sensibile e sessuale è impersonata dal complesso protagonista Chiron, nel film interpretato da tre attori diversi, e di cui il regista cattura la poesia umana, scansando attentamente cliché e mistificazioni di ogni sorta. La regia e la fotografia fenomenali racchiudono ed esaltano il fine della narrazione, con risultati stilisticamente impressionanti e mai estetizzanti, pur essendo a tratti non dissimile da una tecnica impressionista.

L’elemento migliore del film, le performance dei non protagonisti: Naomie Harris (la Tia Dalma di “Pirati dei Caraibi), nel ruolo della madre tossicodipendente Paula, tra tenerezza, squallore e disgusto del sè, e il Juan di Mahershala Ali (Oscar al miglior attore non protagonista), figura paterna del protagonista e motore dell’azione del film, uno spacciatore dal cuore d’oro e dalla meravigliosa sensibilità: un poeta reso criminale dalle difficoltà della vita.