Patrizia Valduga: la poesia e la ricerca di un equilibrio instabile

Giovedì 26 gennaio, nel Palazzo del Rettorato di Torino, Patrizia Valduga racconta se stessa, la nascita del suo fare poesia insieme a quella del suo amore con Giovanni Raboni e la costante ricerca del “punto di sella” per cogliere l’intensità della vita come quella di un’ossequiosa traduzione.

di Giorgia Bollati  –  “Se uno sta bene, non ha bisogno di poesia”. Parole eloquenti quelle pronunciate da Patrizia Valduga nel pomeriggio di giovedì 26 gennaio nella Sala Principi d’Acaja del Rettorato, in via Po, dove si è tenuto uno degli “Incontri con i poeti” organizzati dai docenti dell’Università degli Studi di Torino Davide Dalmas, Beatrice Manetti e Sabrina Stroppa. Di fronte a un pubblico composto da studenti, professori e altre figure del panorama intellettuale torinese, la poetessa e traduttrice veneta ha conversato con l’uditorio, per più di due ore, riguardo alla sua opera, al canone poetico, alla poesia del Novecento e alla sua concezione dei rapporti umani rispondendo alle domande o eludendole elegantemente, ma dirottando gran parte dei discorsi verso il grande amore con Giovanni Raboni.

Intervallando la conversazione con letture di poesie, di altri per la maggior parte, la Valduga ha esortato tutti i presenti all’amore per la parola e per le lingue, ha mostrato la bellezza di traduzioni più o meno indovinate e ha raccontato gli attimi di quiete in cui si nutriva di poesia. Partendo dalla lettura della sua traduzione di una quartina di Omar Khayyâm, poeta persiano vissuto nel XII secolo, (‘Quando sono sobrio, la gioia mi è velata e nascosta, / quando sono ubriaco non ha più coscienza la mia mente./ Ma c’è un momento, in mezzo, fra sobrietà ed ebbrezza:/ per quello darei ogni cosa, quello è la vita vera’) parla della vita vera, della vita intensa, quella che per lei è concentrata nell’espressione scientifica “punto di sella”, il punto in cui i sistemi sono in equilibrio.

Un rapporto bilanciato è quello che per lei si può trovare nelle Cento quartine, la raccolta edita nel 1997 da Einaudi, dove viene inscenato il dialogo erotico tra due amanti, i quali, secondo i critici, altro non sono che le due voci di uno stesso io, che rappresentano due modi opposti di vivere l’amore. La Valduga ridà concretezza a questi due spiriti e spiega come, a suo modo di vedere, non ci sia differenza tra la sessualità mentale e quella fisica: deriva tutto dall’attrazione, immediata e psichica, superiore al desiderio, sempre mediato da un terzo.

Patrizia Valduga
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«Un personaggio nevrotico, ipocondriaco, etereo quanto dissacrante»

Un’esistenza in bilico, una camminata su un orlo forse ancora stabile è quella di cui parla la traduttrice, come preferisce definirsi, e un’accettazione tale dell’amore e dell’umanità da comprenderne l’intrinseca dualità: lo sapeva bene anche Petrarca quando ha composto il sonetto 132 (S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?) che la voce anelante della Valduga fa riecheggiare tra le quattro pareti della sala che sembrano scomparire. Rifiutando gli applausi per sé e respingendo le “accuse” di manierismo, Patrizia Valduga si propone nelle vesti del suo personaggio nevrotico, ipocondriaco, etereo quanto dissacrante, e promette a tutti i presenti una delusione simile a quella provata da chi ha amato il paté e vuole conoscere l’oca.


O
ca, appunto, si definisce e si mostra, ma, più o meno consapevolmente, trasmette una passione che sembra consumarla e, senza troppe remore, si erige a giudice della poesia, riducendo Montale al ruolo di “piccolo ladruncolo insopportabile”, criticando Manzoni e anche Caproni, ignorando Quasimodo e contestando le traduzioni di Ceronetti. In questo mare di disprezzo, tuttavia, sempre si staglia la figura del suo amato Raboni (insieme a quella di Saba), le cui Canzonette Mortali, a lei dedicate, chiudono l’incontro nella sua recitazione commossa.