[REPORT] Pixies: indie in the rain | Flowers Festival

Unica data italiana per la leggendaria formazione di Boston – affiancata dai milanesi Ministri – in una serata bagnata che è un tuffo degli Anni Novanta, ma anche qualcosa di più…

di Enrico Viarengo  –  Difficile capire se sia stata la presenza dei Ministri – dignitosissimi soprattutto grazie all’irruenza dei singoli più datati – a svecchiare il pubblico del Flowers Festival. Forse, più che al rock alternativo e ormai un po’ stantio dei milanesi, bisogna dare credito a quella canzone che ha conquistato (e continuerà a mietere vittime tra i più giovani) intere generazioni. Basta guardarsi intorno: ci sono, certamente, quelli che con Where is My Mind? ci hanno fatto la maturità quasi 20 anni fa e custodiscono con orgoglio la copertina color seppia di Surfer Rosa nello scaffale dei vinili; poi ci sono quelli che cercano di scacciare via la recente ansia da terza prova e ai Pixies, con grande probabilità, ci sono arrivati grazie alle immagini finali di Fight Club e li conservano nella cronologia Spotify.
In ogni caso non c’è una sola anima bagnata dalla pioggia torinese che non intoni il ritornello di una delle canzoni più meritatamente fortunate degli ultimi 30 anni di rock. Fortunate, sì, perché i Pixies hanno costruito una carriera sulle canzoni, molte delle quali non hanno nulla da invidiare alla hit più nota. La lotteria dei singoli da “Surfer Rosa” e “Doolittle” (praticamente tutti, ammettiamolo) è spietata e il fan terminale potrebbe vivere con l’eterna insoddisfazione di non aver goduto delle urla hardcore di Tame o dell’anthem Gigantic (in questo caso l’assenza di Kim Deal non lasciava grandi speranze).

L’attacco con River Euphrates e Hey non poteva essere dei migliori e i suoni, a differenza del set con le chitarre seppellite dalla batteria dei Ministri, sono ottimi. David Lovering è un metronomo vivente e tiene tutto in piedi senza scivoloni. Il rotondo Frank Black potrebbe vincere un duello di voce growl con il cantante dei Ministri, anche se la pancia e l’età lo tradiscono in una Levitate Me sottotono e più lagnosa che su disco (ma era già un bel manifesto di scazzo e stonature, è vero). Santiago era e resta un tamarro geniale. In tutti questi anni non è che abbia affinato molto il suo stile, si prende gli applausi per le sue svisate noise e gli si perdonano le imprecisioni. Del resto, che Pixies sarebbero senza Santiago? La stessa domanda che i più critici hanno fatto dopo la dipartita di Kim Deal, ma bisogna dire che con la più esile Paz Lenchantin i tre hanno trovato una garanzia di qualità.

Non mancano Here Comes Your ManMonkey Gone To Heaven, la più tirata The Holiday Song e la dilatata Gouge Away, potente come negli anni d’oro in questa data unica italiana. Si sorride anche, con il surf demenziale di La La Love You tra fischiettii e “yeah” a metà strada tra il suadente e l’ironico, e si ascoltano con curiosità i pezzi nuovi, come una Um Chagga Lagga che fa ben sperare per un futuro che sarebbe dovuto arrivare già una decina di anni fa (la recente parentesi di “Indie Cindy” non sembra aver convinto nessuno).

Nessuno spettacolo per gli occhi, discutibile il calore. Tante canzoni però, imparate a memoria, consumate, cantate sotto la doccia, ancora fresche e attuali, pop e trasversali, da mettere d’accordo il feticista del rumore con l’utente medio dell’hard-rock più classico.

Insomma, si canta felicemente sotto la pioggia e si muovono le ginocchia per quasi due ore di concerto, senza un grazie che sia uno dalla band di Boston che si limita a un’inchino teatrale finale, prima di un bis in cui qualcosa va storto e la tanto attesa Debaser viene disertata dopo una manciata di secondi e senza un perché. Nel bene e nel male, i Pixies sono anche questo: una grande, enorme band a cui non è mai interessato il piacere e il farsi amare nelle forme convenzionali del rock contemporaneo. Non sono belli, maledetti e incazzati come lo poteva essere Kurt Cobain, non sono trascinanti come gli Afghan Whigs di Dulli che ancora oggi si danna per uno spettacolo da trattenere il fiato, non hanno il fascino intellettuale newyorkese dei Sonic Youth e nemmeno l’appeal da anti-eroi di Mascis e dei suoi Dinosaur Jr. o lo scazzo giocoso dei Pavement.

Nessuno spettacolo per gli occhi, discutibile il calore. Tante canzoni però, imparate a memoria, consumate, cantate sotto la doccia, ancora fresche e attuali, pop e trasversali, da mettere d’accordo il feticista del rumore con l’utente medio dell’hard-rock più classico. Poco male, quindi, se Debaser non va questa sera. Loro se ne fottono e si giocano un’altra cartuccia da tre minuti, un’altra tra le tante che basterebbero da sole ad accontentare la massa di magliette umide e sandali sporchi di terra.