8 ore di magia Anni Ottanta nel catalogo di Netflix: la differenza tra il trend della nostalgia e un cult contemporaneo?
di Davide Mela – Stranger Things è un original di Netflix creato da tali Matt e Ross Duffer. Se mi aveste chiesto chi erano questi individui una settimana fa, vi avrei risposto che non ne avevo la più pallida idea. Ora posso tranquillamente dirvi che sono i miei eroi.
Già di per sé il prodotto rappresenta un’anomalia all’interno del catalogo di Netflix: in un palinsesto composto prevalentemente da certezze assolute e proprietà intellettuali dalla sicurezza commerciale ampiamente consolidata (vedi i vari Daredevil, House of Cards, Jessica Jones, Orange is the new Black), Stranger Things è il risultato di un soggetto originale sviluppato da due quasi-esordienti. Rappresenta una scommessa commerciale rischiosa e quasi poco convincente, se non fosse per la presenza all’interno del cast di volti noti come Winona Ryder (che poi è praticamente l’unica attrice “di cassetta” della serie).
A livello di atmosfera e contenuti, Stranger Things somiglia ad una storia che si racconta in campeggio attorno al falò; e se questo parallelo vi risulterà eccessivamente nostalgico e anacronistico, è perché Stranger Things è nostalgico e anacronistico: è un racconto di formazione con giganteschi omaggi a Spielberg, Joe Dante e ai romanzi di Stephen King, orgogliosamente ambientato nella provincia americana degli anni ’80 che tutti abbiamo imparato a conoscere ed amare attraverso il cosiddetto “cinema della nostra infanzia”. E non mi importa se non abbiamo la stessa età o se siete troppo vecchi o troppo giovani per considerare quell’epoca il cinema della vostra infanzia: io mi riferisco all’infanzia collettiva, a quel profondo e imperscrutabile senso di meraviglia che si prova nel leggere It o a guardare ET.
In quanto “racconto da campeggio”, Stranger Things si muove nel territorio della ghost story adolescenziale. Al di là degli evidentissimi e già citati riferimenti cinematografici e letterari (ma anche musicali), non è mai tanto colorato o spensierato come può esserlo un ET; al contrario, come molte storie dichiaratamente imbevute di nostalgia, è malinconico e cupo, dominato da toni scuri e notturni: le luci non sono al neon, ma più che altro lampadine che flickerano. Una colonna sonora composta al sintetizzatore e una selezione musicale appropriata per l’epoca concludono il quadro, proponendo forse il miglior tema musicale di accompagnamento ai titoli di testa che si sia sentito da parecchi anni.
Qualcosa di Stranger Things ricorda la new wave dell’horror americano: è estremamente derivativa di un genere e un periodo e spassionatamente innamorata di un certo tipo di cinema o epoca storica. Parlo di prodotti come It Follows, You’re Next, House of the Devil e The Guest, la cui costante è una specie di “oscillazione temporale” che sembra trasportare il passato nel presente e riferirsi direttamente ai nostalgici di film che ormai hanno 20 o 30 anni.
Se si volesse fare un discorso sullo stato di salute dell’horror moderno, si potrebbe dibattere su quanto questa pratica dell’essere volutamente retrò abbia stancato. Al contrario, Stranger Things è abbastanza intelligente, ben scritto, ben recitato e, più in generale, ben fatto da non dare mai l’impressione di un omaggio fine a sé stesso (come potrebbe essere un Super 8 di J. J. Abrams).
Stranger Things è anni ’80 perché gli anni ’80 sono belli. Punto. È un film a puntate lungo quasi 8 ore che non stufa mai e non annoia mai, ma anzi possiede un gigantesco fattore di “bingeabilità”, e Dio abbia pietà della mia anima per avere coniato questo neologismo. Ovvio, Stranger Things gioca e marcia sull’effetto-nostalgia: ma si tratta di un effetto nostalgia talmente adorabile e meraviglioso che non si può fargliene un torto.
Lungo la storia, la spina dorsale della trama si articola lungo il dramma di 4 ragazzini e un amico scomparso da ritrovare, e di fatto si sviluppa come un classico mistery in cui i personaggi si allontanano ed avvicinano quasi ritmicamente, come il respiro di un mostro invisibile. La capacità degli sceneggiatori è immediatamente percettibile dal lavoro fatto sui personaggi dei ragazzini, per i quali lo show si prende il tempo e lo spazio per sviluppare tratti e personalità solo apparentemente stereotipate: c’è una grande differenza tra lo stereotipo e il classico, e Stranger Things viaggia più sulla strada del “classico istantaneo”.
Il cuore della vicenda è dunque rappresentato da un gruppetto di amici che giocano a Dungeons & Dragons e parlano di Signore degli Anelli e X-Men, e questo non può non ricordare i migliori romanzi di formazione di King e i suoi “incubi di provincia”.
Le controparti più anziane dei giovani protagonisti sono rappresentate da un gruppetto di adolescenti “che si comportano da adolescente”, ma in maniera sorprendentemente ben gestita, ben scritta e quasi giustificata: trattandosi di un racconto di genere, troverete per forza di cose personaggi che a tratti prendono decisioni poco sensate o decidono di fare qualcosa di molto stupido. La cosa è facilmente perdonabile e non smuove di un millimetro la sensazione di avere a che fare con qualcosa di eccezionale, capace nel 2016 (che è quasi l’apogeo dello sfruttamento indiscriminato del “fattore-nostalgia”) di trasformare l’ambientazione e l’atmosfera retrò di un racconto di genere in un prodotto nuovo.
Nel 2016, il cinema hollywoodiano sperimenta in continuazione nuovi metodi e strategie per “monetizzare la nostalgia”: da Star Wars a Jurassic World passando per Ghostbusters
Gli elementi di genere, dalla “dimensione del sotto-sopra” al modo in cui i misteri si risolvono solo parzialmente e non tutte le zone d’ombra vengono illuminate direttamente da una spiegazione, funzionano tanto quanto l’approfondimento dei personaggi e la bellezza della confezione. A metà strada tra Silent Hill e Carrie, il fantasy di Stranger Things è genuino e innocente quanto ci si aspetterebbe da un film di Joe Dante: il male è più a misura della fantasia di un bambino di quanto sarà mai razionalmente formulabile dallo scetticismo di un adulto.
Insieme a tutto questo, in Stranger Things c’è anche qualcosa di Carpenteriano, soprattutto dal momento che il racconto non è quasi mai leggero e le conseguenze sui personaggi sono sempre piuttosto serie: il male c’è ed è sgradevole, inquietante e pericoloso: non ci sono mostriciattoli carini come in Tim Burton, ma molto spesso “mostri interiori” capaci di beffarti sull’ultima inquadratura.
Nel 2016, il cinema hollywoodiano sperimenta in continuazione nuovi metodi e strategie per “monetizzare la nostalgia”: da Star Wars a Jurassic World passando per un improbabile desiderio di rilanciare Ghostbusters per le nuove generazioni, l’unica vera speranza commerciale sembra riposta nel guardarsi alle spalle senza raziocinio, tastando nel buio in cerca di una nuova-vecchia proprietà intellettuale da trasformare in brand.
Contemporaneamente, Stranger Things insegna a chiunque avrà la fortuna di guardarlo come davvero funziona il sentimento della nostalgia al cinema o in televisione: dimostra che l’affetto verso un ricordo del passato è un riflesso incondizionato e non si può replicare in laboratorio, ma al contrario serve nutrire il proprio cervello di novità per riuscire a trasformare l’istantaneo in classico. E Stranger Things è così: un classico istantaneo.