Un viaggio lungo le strade islandesi e attraverso il proprio inconscio con il suggestivo spettacolo di luci e musica dei Sigur Ros a Monza.
Dove sul prato enorme la gente è distesa sui teli, si respira, inevitabilmente, un po’ di quella terra che si alza nell’aria quando si cammina. Si respira aria di festival. Con le gole secche ci si appresta a bere una birra ghiacciata e ad aspettare che il gruppo cominci a suonare. Arrivate le 22.30, orario d’inizio del concerto, il pubblico è impaziente e decide di mettere in scena il “geyser sound”, cioè il coro islandese che ha spopolato durante tutti gli ultimi europei di calcio. Peccato che siamo italiani e andiamo fuori tempo anche nel battere le mani. Il risultato è un applauso scoordinato e per niente incitante come si è visto nei giorni precedenti sul web o sulla tv. Dopo questa prova, per fortuna, non siamo riusciti a mettere in fuga gli artisti che hanno poco dopo cominciato il loro spettacolo.
Ovedur. L’avventura comincia da qui. Con le luci che s’inceppano, scattose al ritmo dei bassi intensi e terminano in piccole esplosioni. Il palco è intrappolato nei fili di una centrale elettrica abbandonata, di quelle che nei film si vedono nelle scene apocalittiche con tanto di tensione elettrica visibile nei lampi ben ricostruiti. Doppi muri di luci quelli tra cui si esibiscono Jónsi Birgisson e compagni: come intrappolati, distaccati e contenuti in uno scrigno di riverberi. Una delle forze del gruppo è quella di dare un valore musicale persino alle parole inventate, come nel caso dei loro brani a base di “Volenska”, così durante il live riescono a conferire una virtù musicale persino ai lampi e i chiarori. Con i Sigur Ros tutto è musica, persino la luce.
Staralfur. E la dolcezza piomba sul prato dell’I-days festival in pochissimi secondi. I brani si alternano in una sinestesia continua che lascia fluire i sensi in uno spettacolo catartico (siamo soltanto alla canzone numero due della scaletta). Sæglópur. Il muro di luci lentamente si alza seguendo il tempo della voce unica di Jónsi, i tre musicisti sono alla portata di tutti, finalmente raggiungibili e non più divisi da quel muro di luci prezioso e affascinante. Tra la voce quasi bianca, femminea e la batteria sempre più in crescendo, il pubblico si perde nel mare della musica e con gli occhi lucidi, fissi e attirati come magneti da quell’immensità di blu impetuoso, si immerge in un vero e proprio mare di emozioni. L’islandese si mescola con l’hopelandic, l’idioma inventato dal gruppo islandese, ma chi se ne accorge? D’altronde l’orecchio apprezza lo stesso le sillabe prive di senso perché cantante e trattate come un vero e proprio strumento musicale, Jónsi le modula in un crescendo fra delicatezza ed impeto.
Glósóli. Dal mare al sole splendente, gli artisti decidono di suonare uno dopo l’altro i brani di “Takk” mettendo in gioco tutte le emozioni possibili nel giro di pochi minuti. Le risonanze del nord sono capaci di evocare la natura dalla quale provengono. L’I-days Festival si trasforma in un’isola trasportata dalle note della band. La musica evoca i paesaggi islandesi composti da ossimori e antitesi naturali: vulcani e geyser che si contrappongono alla neve, al vento e alle acque gelide dell’oceano. Tra proiezioni e viaggi immaginari lo spettacolo Sigur ros continua con Ny Battery, E-bow e Vaka.
Un deciso salto nel 1999 con Yfirbord, brano del secondo album “Ágætis byrjun” e poi uno slancio più attuale passando per Kveikur, brano omonimo del loro settimo album datato 2013. Poi gli albori del gruppo espressi con Hafsol, Von, regalando al pubblico la speranza di qualche minuto in più di concerto magari con un qualche altro pezzo storico. Ma il trio si accontenta di donare un ultimo pezzo, Popplagid, tratto dall’album “( )” chiamato anche Svigaplatan (“fra parentesi”). Così, il concerto si conclude con un l’espressione massima della malinconia e delle sfumature più oscure del gruppo in un crescendo di suoni e luci impazzite. Il tutto espresso attraverso quell’idioma inventato, che se tradotto in italiano si chiamerebbe “speranzese”, che dona sempre sogno e fiducia anche nell’illusione. Poi il silenzio.
Gallery fotografica a cura di Martina Marzano