[REPORT] Philip Glass, il Museo Egizio di Torino e il faraone anticonformista

Nell’orbita sabauda del festival MITO – Settembre Musica, all’Auditorium Agnelli va in scena la prima italiana dell’opera dedicata al Regno “illuminato” di Akhnaten: l’omaggio di Philip Glass al rinnovato Museo Egizio.

_di Lorenzo Giannetti

Avere a che fare con Philip Glass vuol dire confrontarsi con una personaggio poliedrico e imprevedibile. Non è facile star dietro ad un artista che nel corso della sua lunga e dirompente (leggasi “di rottura”) carriera ha saputo più volte reinventarsi, allargare i propri orizzonti, cambiare direzione, guardare oltre. Philip Glass disorienta, non dà punti di riferimento, ma allo stesso tempo é riconoscibilissimo; quanto imitato. Il compositore di Baltimora sembra essere sempre due passi avanti a noi, agli altri, a tutti. Di fronte ad una personalità di questo spessore, al termine delle quasi 3 ore di spettacolo nel moderno Auditorium del Lingotto, vien da chiedersi innanzitutto in che modo lo stesso autore avrebbe potuto accogliere questo “Akhnaten sabaudo”, ardita riduzione in forma di concerto della sua opera lirica in tre atti.

Beh, l’esecuzione torinese del libretto di Akhnaten sembra essere in qualche modo aderente allo zeitgeist della città: sobria, composta, misurata, d’una eleganza d’antan, a tratti abbottonata. Quindi, volenti o nolenti, tocca dimenticare i costumi appariscenti e le scenografie sontuose che in genere accompagnano la ricostruzione scenica dell’Antico Egitto e concentrarsi sulla musica e sui significati.

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L’Akhnaten di MITO (replicato anche al Piccolo Teatro Streheler di Milano) è concepito come un omaggio alla riapertura del Museo Egizio, che ha rinnovato il suo allestimento e quasi raddoppiato la superficie visitabile. Unica concessione alla “messa in scena” infatti sono i visuals proiettati sui due grandi schermi che incorniciano il palco, sui quali scorrono immagini di reperti conservati nell’avamposto d’Egitto in pieno centro città.

Maschere, bassorilievi e papiri, che insieme a cartografie e sottotitoli ci aiutano a sentire la sabbia sotto i piedi, in prima fila come in piccionaia, in un Auditorium Agnelli gremito.

A dirigere l’Orchestra ed il Coro del Teatro Regio c’è il Maestro di fama internazionale Dante Santiago Anzolini, già alle prese con il genio di Glass per la Satyagraha al Metropolitan nel 2011, opera dedicata alle politiche rivoluzionarie di Gandhi. La Satyagraha e l’Akhnaten sono rispettivamente il secondo e l’ultimo episodio della Trilogia dei Ritratti, iniziata negli Anni Ottanta da Philip Glass con Einstein On The Beach, dedicata – ça va sans dire – al celeberrimo fisico e filosofo.

Glass ci racconta le Vite di quelli che con buona probabilità ritiene degli Oltreuomini nietzschiani: non certo i ridicoli Supermen dei totalitarismi (che distorcevano e banalizzavano le parole di Nietzsche) bensì quei rari esempi di uomini che riescono, o almeno provano, ad elaborare un sistema di valori che vada oltre i dogmi precostituiti, un modus vivendi che travalichi la propria epoca.

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In qualunque ottica specifica si voglia leggere o inquadrare la selezione di Philip Glass, risulta quasi immediato riconoscere la portata rivoluzionaria di due colonne del pensiero del Novecento quali Ghandi (in politica) e Einstein (nella scienza), mentre potrebbe essere un po’ più macchinoso contestualizzare in questo tris l’avanguardia religiosa di Akhnaten. A giudizio di chi scrive, l’autore sceglie questa figura outsider – tra i tanti riformatori in campo religioso – indubbiamente anche per le suggestive possibilità insite in una cornice narrativa come l’Antico Egitto, avvolta da un’aura sacrale e solenne. Ma non solo.

A livello formale, infatti, Glass sceglie di contrapporre alla lingua moderna (quella del narratore/scriba interpretato da Valter Malosti) l’idioma antico (alternando egizio, ebraico e accadico), dando all’intera opera un registro aulico e tragico ma anche un impeto romantico. Il lavoro degli interpreti è doppio, in assenza di qualsivoglia merletto scenico: la voce del faraone è del controtenore inglese Rupert Enticknap, affiancato da Gabriella Sborgi (Nefertiti), Valentina Valente (Tye), Giuseppe Naviglio (Horemhab), Mauro Borgioni (Aye). Coadiuvato dal grande e dal piccolo Coro (che ci riporta alla Tragedia Classica), ogni attore (si) ritaglia la sua porzione di Storia.

Ascesa e caduta di Akhnaten sono scandite dalla tipica ripetizione glassiana, comunque meno statica dei mantra cui il Maestro ci ha abituato in altre occasioni. Magnifici gli affreschi di vita quotidiana, intimi e raccolti, come il tête-à-tête tra Akhnaten e Nefertiti. Più difficili da metabolizzare invece gli Inni. Totalizzanti e sublimi due episodi su tutti: Il Funerale di Amenhotep III e l’Assalto al Tempio di Amòn, che da soli valgono il prezzo del biglietto.

Premesso che ricostruire i retroscena della politica interna ai tempi delle Piramidi non é impresa facilissima, dicevamo, perché Akhnaten?
Ad una prima lettura, la figura di Akhnaten é collegata all’introduzione del culto monoteista nella società egizia. Non si trattò tuttavia del semplice abbandono del politeismo.

Quand’anche rischiando di essere additato dalla Storia come accentratore, istituendo il culto unico del Dio Sole, Akhnaten tentò di limitare lo strapotere dal “clero”, della casta sacerdotale eletta per stirpe. A quel punto Akhnaten, unico portavoce di un unico Dio, non divenne un dispotico Re Sole ma qualcosa di più vicino ad un monarca illuminato, almeno per gli standard del 1350 a.C.

“Akhnaten aveva trasformato il suo (e il nostro) mondo attraverso la forza delle idee e non con la forza delle armi” dichiara Philip Glass.

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Il “faraone ribelle” si fece portavoce ed incarnazione di una nuova concezione del Potere. L’iconografia di Palazzo divenne più realistica e meno idealizzata, ma non per questo meno simbolica: il sovrano non era più un colosso perfetto ritratto in pose plastiche ed irreali, ma un Essere asessuato (o meglio, sia uomo che donna, in qualche modo superando le distinzioni di genere) che rinunciava a farsi raffigurare impugnando le armi in atteggiamenti bellicosi.

Slogan politici? “Forse” per gli schiavi costretti a tirare blocchi di pietra 24/7 non fece molta differenza – suggeriamo, col sorriso.  Tuttavia, indubbiamente, durante il Regno di Akhnaten, attorno alla città di Amarno (fondata proprio come avamposto del Re Amòn) si registrò un notevole incremento delle Arti e del Commercio; e – pare – venne anche abolita la pena di morte, decisione che per l’epoca doveva sembrare, come dire…  fantascientifica. C’è vita (e Storia!) oltre a Tutankhamon, insomma. Eccome.

Quando la narrazione si riallaccia alla contemporaneità, coi toni vagamente asettici della guida turistica, ci ritroviamo a visitare il Palazzo di Nefertiti. Ora Akhnaten appare come fantasma, in un eterno ritorno di sabbia e mantra. E allora, tocca fare i conti col passare del tempo, col dispiegarsi della Storia: di quel Regno florido non rimangono solo rovine ma anche un messaggio col quale confrontarsi, una sfida da (ac)cogliere. L’eco di  Akhnaten è arrivata fino a noi, fino alle “Tempio di Lingotto”, alle “Piramidi d’Europa”. Peccato che dal Mediterraneo al Mar Morto, al crocevia di quella polveriera che è il mondo contemporaneo, tra le maglie strette della casta così come tra le teste chiuse del popolo, non si vedano molti Oltreuomini all’orizzonte

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 Photo by Pasquale Juzzolino

 

 16 settembre 2015