Il racconto del concerto torinese di Mimì e compagni all’Hiroshima Mon Amour.
_ di Lorenzo Giannetti
Tra forconi e forchette, braccia tese e aspettative disattese, la confusione di questi mesi e le cattive abitudini di sempre, la sensazione di questi giorni di “protesta” è davvero quella di non sapere che aspettiamo nella piazza (fisica ma anche virtuale): quale identità per i barbari dietro l’angolo?
Più che incitare alla lotta, i dischi dei Massimo Volume hanno sempre saputo aprire una finestra di introspezione nell’ascoltatore, talvolta in maniera violenta e implacabile: una riflessione scomoda e ficcante, severa come il riflesso d’uno specchio. Non c’è da stupirsi che Emidio Clementi sia interessato più all’attesa e alle cause dell’assedio e che la band bolognese si presenti sul palco dell’Hiroshima – serafica e senza fronzoli come sempre – per due ore di “protesta privata” lontana da sermoni politici e slogan politichesi.
Pessimista nel trovarci tutti poco preparati di fronte alle ambiguità del presente, ora che l’orizzonte è in fiamme. E allora ci acconciamo, in onore dei barbari e la sala Majakovskij si riempie fino al bancone del bar. In apertura fanno benissimo i The Death of Anna Karina, che si muovono lungo i bordi tra oscuri presagi screamo e cervellotiche fughe emocore. Applausi e coinvolgimento non così scontati (se) in attesa di “giganti” come i Massimo Volume. Mimì si apposta al centro imbracciando il basso, in mezzo ai fuochi delle chitarre di Sommacal e Pilia, quest’ultimo – visto recentemente a Torino in compagnia di Paolo Spaccamonti – innesto di pregio nella seconda giovinezza della formazione emiliana. Dietro alle pelli un’impeccabile Vittoria Burattini (con la cassa da 24′, leggi qui la nostra intervista). Un poker di canzoni tratte da “Aspettando i barbari” (si darà molto spazio all’ultima fatica discografica, eseguendola quasi per intero) scioglie il ghiaccio, poi arrivano la sferzante “Litio” e la mesta “Le nostre ore contate” ad infiammare i cuori. Da “Cattive abitudini” arriverà come un proiettile anche l’impetuosa “Fausto”, tripudio del chitarrismo dei Massimo Volume, capace di dilaniare ed avvolgere. Acustica impeccabile, con attenzione particolare in cabina alla resa dello spoken-words, perfettamente comprensibile.
Arriva il bis, una ragazza ha un mancamento subito dopo l’immensa “Il primo Dio” e mi piace pensare che sia per la folgorazione (da me condivisa) di non essere lei l’uragano! Arriva addirittura il tris e a distanza di vent’anni fa ancora malissimo sentirsi gridare in faccia da Emidio se è, davvero questo, quello che siamo: “Fuoco fatuo”.
Vent’anni. Che dire? In passato – come ricorda sorridendo Mimì – la reazione alla loro musica era pressapoco: “Ma che cazzo è sta roba?”. Due decadi dopo i Massimo Volume sono un’istituzione, percepita con un certo timore reverenziale e talvolta cannibalizzata da un citazionismo altrui colto-stolto.
Ora, oggi: hanno ancora qualcosa da dire, eccome. Sono (più che) consapevoli dell’aura mitica e del processo di canonizzazione attorno a loro, ma consumerei lo stereo prima di etichettare i loro lavori (diciamo “fotocopia” se volete) come sterile calligrafia o affermazione edonistica di maniera. Men che meno ricerca di gloria e/o denari. Per ora Emidio fa un inchino (metaforico in “Da dove sono stato”) ed io lo faccio ai Massimo Volume: non per timore reverenziale ma per queste due orette di “ proficua attesa”. Nell’illusione che ciò che sono riuscito a dire (in questo articolo) fosse ciò che avevo da dire, cosa difficile per tutti. Ecco, ho fatto troppe citazioni colte-stolte. Vi piaccia o no.