Il concerto infuocato della sassofonista americana entra indubbiamente tra gli highlights di questa edizione del Torino Jazz Festival: QUI il programma completo dei prossimi giorni. Articolo a cura di Oliver Crini.
Il Torino Jazz Festival volge alla chiusura e si prepara ad accogliere Lakecia Benjamin, giovane “astro nascente del sax” secondo Downbeat, che vanta ben 5 nomination ai Grammy Awards, e collaborazioni che spaziano da Clark Terry a Robert Glasper.
Il Teatro Colosseo è la venue giusta per lo spettacolo che sta per cominciare. Qui, ricordo di aver assistito ad alcuni dei concerti più memorabili delle edizioni passate; da Ron Carter ad Avishai Cohen fino a Christian McBride, il Colosseo è diventato una specie di “Lincoln Center” che ospita i nomi più importanti del Jazz americano, quello più fedele alla tradizione e alle radici orgogliosamente black.
Lakecia Benjamin si muove a pieno titolo nell’alveo della tradizione afro-americana, sebbene in una nicchia un po’ dimenticata qui in Europa, quella del post-bop coltraniano (mi riferisco a John ma forse ancor più alla moglie Alice) che mischia l’improvvisazione estesa all’orientalismo delle armonie modali e statiche, alimentato da pulsazioni ritmiche afro-cubane.
Benjamin apre il concerto recitando le parole di Angela Davis “La speranza della rivoluzione risiede proprio tra quelle donne che sono state abbandonate dalla storia”, e regola la temperatura di quello che sentiremo da lì a poco: un concentrato di black music, dove il rap ha uguale spazio e dignità al suono chiaro ed energico del sax contralto e al groove inarrestabile della sezione ritmica. Lakecia cita Mingus, non con il suo primo strumento, bensì nel bel mezzo di un flow spericolato di rime “Lord don’t let them drop an atomic bomb on me”, una preghiera quanto mai attuale di questi tempi.
Con Lakecia Benjamin ci troviamo al cospetto della natura più autentica e libera del jazz, quella vetta artistica che il genere ha espresso a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, con i suoi colleghi di ancia John Coltrane, Ornette Coleman ed Eric Dolphy, che erano stati in grado di costruire un ponte tra post-bop, il free jazz che sarebbe esploso da lì a poco, e la musica dell’Africa subsahariana e dell’India del nord.
La sua versione estesa di My Favourite Things è un tour de force coltraniano, che sembra uscito dalle celebri live session al Vanguard del tenorista. Il solidissimo groove è squarciato dal cry del sax di Benjamin, con affilatissimi sovracuti che sembrano quasi provenire da un soprano, tanto il suono è penetrante. Le scale pentatoniche senza vibrato o con rapidi trilli celebrano i raga indiani e una certa vena spirituale che ricorda l’oboe indiano.
Dorian Phelps, da soli 4 mesi nell’organico del quartetto, e al primo tour della sua vita (ma forse Lakecia qui scherzava!), esibisce un drumming portentoso, sempre settato sui sedicesimi, molto avanti sul beat, capace di spingere tutta la band, ed è completato dai riff chiari e potenti di Elias Bailey al contrabbasso.
Non manca l’attitudine da “master of ceremony”: la Benjamin parla ininterrottamente tra un brano e l’altro, fa ridere, cantare e battere le mani a tempo al pubblico torinese (che ahimè si perde facilmente, ma sorvoliamo). Non ho mai visto altri artisti in questo genere interagire così tanto con il pubblico: un desiderio che non sapevo di avere, per restituire un po’ di umanità al jazz, che il cliché vuole autoreferenziale e ingessato, ma che con Lakecia diventa gioiosamente sguaiato e festaiolo. Come quando la Benjamin chiede per ben tre volte se ci sono uomini in sala disposti a sposarla e darle ospitalità in Europa, per fuggire dall’America Trumpiana!
Persino Amazing Grace, suonata in duo con l’eccellente John Chin ai tasti bianchi e neri, si trasforma dallo spiritual di preghiera a un vero e proprio lamento estatico, con un crescendo blues sul finale, che restituisce tutta l’energia del gospel, anche se il contralto é l’unica “voce” del coro.
Il concerto si chiude con una versione di Cissy Strut e un medley delle hit si Stevie Wonder Higher Ground e Isn’t She Lovely, con Lakecia che improvvisa, rappa e aizza il teatro, senza soluzione di continuità, esprimendo lo stesso talento nelle tre arti. Una notte di fuoco che non dimenticheremo facilmente!
