Dopo Challengers e Queer, Luca Guadagnino prosegue la sua personale esplorazione della dialettica tra potere e affetti, in un dramma morale che tocca nel profondo ipocrisie e pregiudizi di una certa élite intellettuale d’Oltreoceano: un film raffinatamente ambiguo, che dà tuttavia l’impressione di non riuscire a portare fino in fondo i propri intenti, pur costituendo l’opera più “politica” del cineasta italiano. A cura di Alberto Vigolungo.
Dentro After the Hunt c’è molto, se non tutto, dell’esperienza dell’America di Luca Guadagnino: l’America della cultura e dello spettacolo, i suoi riti mondani, i suoi discorsi, le sue nevrosi e contraddizioni, in un’era in cui l’esercizio dell’opinione si è circondato di un alone di sospetto, e le conseguenze di oltre un decennio di “politicamente corretto” hanno assunto, almeno negli States, risvolti inquietanti, tra derive icononoclaste e nuovi puritanesimi. Coltivando il germe del trumpismo e il suo spirito di rivolta bieco e nostalgico, ma anche la crisi profonda di una sinistra la cui paralisi è in parte dovuta ad un perseverare negli stessi errori, e ad una negazione ostinata delle proprie responsabilità. L’esperienza di un mondo di “privilegiati” insomma, come accusa uno dei personaggi una volta preso atto della sua carriera stroncata presso un college della Ivy League, non più sicuri nemmeno tra le mura del proprio castello, narrata in un film che parte con le giuste premesse e il tono arguto del Bret Easton Ellis di Bianco, smarrendo un po’ il filo nell’arco dei suoi 138 minuti.
2019. Alma Imhoff, docente di etica a Yale, è una donna dalla carriera di successo. Lo scandalo che vede coinvolti il suo brillante assistente, Hank, e una dottoranda che si appresta a completare la propria tesi con lei, Maggie, trascina la protagonista in un dilemma morale che la porta, dopo un duro colloquio con l’uomo, a prendere infine le distanze dalla studentessa. Nonostante Alma – tra i membri più in vista del dipartimento di filosofia – non si pronunci mai formalmente contro Hank, quest’ultimo viene sollevato dai propri incarichi accademici e, mentre il caso divampa nel campus, anche la carriera della professoressa vacilla. Dopo che il rapporto tra lei e il suo ex-assistente deflagra in un cumulo di verità non dette, e il conflitto tra lei e Maggie culmina in un gesto umiliante, spingendo la donna a confessare al marito psichiatra una colpa che affonda le radici nella sua adolescenza, le due si avvicinano, facendo sorgere, a distanza di alcuni anni, un’inaspettata amicizia.

Metafora sofisticata dell’America intellettuale post-MeToo, After the Hunt riflette la visione di Luca Guadagnino – dopo Sorrentino, il regista italiano attualmente più “in voga” negli Stati Uniti – su molti temi caldi dell’opinione pubblica d’Oltreoceano, tra cancel culture, inclusività e politicamente corretto: più che un thriller psicologico, un dramma morale in cui si affastellano ipocrisie e contraddizioni di un certo ambiente, ormai da diverso tempo “braccato” dalla contestazione anti-élite di marca trumpiana da una parte, e dall’altra le derive più estreme di fenomeni culturali nati in seno al progressismo stesso. In questo senso, la metafora adottata è quella della caccia, intorno alla quale prende forma una storia dilaniata da dubbi e sospetti, e in cui la denuncia diventa anche il mezzo più valido per una vera e propria resa dei conti, quindi, essenzialmente, una storia sul potere.
Dal film emerge innanzitutto la raffigurazione di un’élite la cui vita sociale ruota attorno a party chic, pause pomeridiane tra pub e cocktail bar, e dopocena filosofici tra professori e studenti prediletti che sono parte integrante della routine universitaria statunitense, e in cui le conversazioni sono accompagnate da massicce dosi di cibo e, soprattutto, di alcol: occasioni informali di chiarimento, spiegazione, talvolta confessione, tra un bicchiere di Jameson e una sigaretta. In questo contesto, la dialettica tra Hank Gibson e Maggie Price emerge ben prima dello scandalo a sfondo sessuale che sconvolge la vita della comunità. Il loro rapporto, del quale lo spettatore sa quanto il personaggio di Alma Imhoff, è giocato su una serie di opposizioni piuttosto nette, che chiamano in causa razza, censo, appartenenza culturale, ma anche una certa dialettica generazionale: se, infatti, nel corso della lunga scena a casa di Alma e di suo marito Frederik, il giovane intellettuale lanciato verso una brillante carriera accademica si fa beffe del tentativo di questa comunicazione di epurare misogenia e razzismo tramite un semplice atto di rimozione (e rendendo un’opinione “sbagliata”, come scrive proprio Ellis), nella medesima situazione si manifesta anche la distanza tra due generazioni, Gen Z e Millennial, rispetto a questi temi. Tuttavia, quando lo scandalo finirà per travolgerlo, Hank avanzerà soprattutto un elemento di “classe”, sbattendo in faccia alla mentore, con la quale ha intrattenuto un rapporto non meno ambiguo, la sua visione della vicenda come ennesimo sopruso della classe agiata (incarnata dalla “privilegiata” Maggie) ai danni del popolo, dal quale egli stesso proviene.

Rispetto a questo contesto ben definito, uno degli elementi di maggior interesse di After the Hunt – Dopo la caccia consiste in un triangolo narrativo che vede continuamente mutare la posizione dei propri vertici: se in un primo momento la protagonista, che non prende mai esplicitamente posizione rispetto alla vicenda, sembra propendere per il suo collaboratore, il progressivo allontanamento della professoressa dalla sua “comfort zone” sociale (indotto dall’accusa di Maggie), non fa che proiettare ombre sempre più fitte sulla sua figura, relegandola in una posizione di debolezza e spingendola infine a fare i conti con un tragico evento del proprio passato. Mentre i rapporti tra la donna e i due personaggi assumono dinamiche inversamente proporzionali – con tutto il carico di ambiguità che essi portano con sé – la figura di Maggie emerge via via nei tratti di una vera e propria nemesi, non priva di raccapriccianti venature moraliste (se non addirittura disturbate). Ed è qui che si consuma il vero confronto del film: quello tra due donne interessate unicamente a delimitare il proprio territorio, e in cui la posizione di Maggie si fa non meno oscura di quella della professoressa Imhoff. Questo, prima che la nemesi si charisca parzialmente in una sorta di redenzione e sfoci addirittura in un’inaspettata amicizia.
Alla luce di questa “svolta” verso il dramma intimo di una donna spogliata delle proprie certezze (e insicura delle persone a lei più fidate, curiosamente uomini), per il quale le posizioni di potere si invertono completamente, il film tiene alta la tensione, non riuscendo tuttavia a sostenere l’ambiguità di fondo che lo caratterizza sin dalle prime scene, un po’ come per un gioco che ha smesso di interessare o di cui non si riesce a passare al livello successivo. In questo, lo stile è del tutto coerente. Film d’interni e di dialoghi, dove le languide esplorazioni della macchina da presa si soffermano su dettagli di design e piani decentrati, disegnando asimmetrie in chiaroscuro e nevrotici quadri nel quadro, After the Hunt alimenta il senso di un’atmosfera asfittica, negli spazi così come nelle distanze tra i vari personaggi. Questa ambiguità che caratterizza i personaggi – rispetto alla quale soltanto di Alma Imhoff troviamo una definizione precisa, nelle parole dell’eccentrico marito e psichiatra Frederik (“Tendi a scegliere le persone purché ti adorino, non per un loro effettivo merito.”) – diventa anche ambiguità “narrativa”, con una proposta che sembra perdersi poco alla volta nei mille labirinti aperti dal suo sguardo. E mentre questo sguardo si posa definitivamente sulle inquietudini della protagonista, per poi investire di un significato catartico l’azione di Maggie, un senso di incompletezza pervade lo spettatore, persistendo anche dopo l’uscita dalla sala: la sensazione di qualcosa di trattenuto, di malcelato, come i dolori fortemente debilitanti che Alma tenta di nascondere dietro forti assunzioni di farmaci, fino alla scena del suo “assedio” pubblico.

Preceduto da una tambureggiante campagna promozionale – come quasi tutti i film di Guadagnino, da Chiamami col tuo nome (2017) in poi – l’ultimo lungometraggio del regista italiano lascia l’amaro in bocca per un’incompiutezza di fondo che neppure le svolte del film, seppur sorprendenti nello scavo psicologico del personaggio interpretato da Julia Roberts prima, e nel finale poi, non riescono a colmare. Come se, ad un certo punto, l’autore avesse deciso di rinunciare ai propri intenti, lasciando andare una storia ormai sfuggita di mano. In ogni caso, After the Hunt – Dopo la caccia rimane il film più politico di Luca Guadagnino, sempre impegnatissimo tra progetti di regia e produzione (dopo tanti rumor, aleggia ancora in me un certa delusione per il mancato accordo tra il cinesta e Bret Easton Ellis per una serie tv tratta da Le schegge – ora nelle mani di Ryan Murphy – anche se è stata confermata la notizia, di nuovo esaltante, secondo cui Guadagnino sarebbe al lavoro su un remake di American Psycho, per la sceneggiatura di Scott Z. Burns). Da questo punto di vista, l’opera non teme di affrontare direttamente questioni “scomode” come altre pellicole uscite ultimamente da Hollywood, prima fra tutte Una battaglia dopo l’altra, ma che, a differenza della satira corrosiva di Paul Thomas Anderson, potrebbe forse piacere ad Ellis per il suo gioco sospeso tra affresco sociale e racconto introspettivo. Tuttavia, come detto, la cifra narrativa e stilistica di After the Hunt consiste in un’ambiguità che, unita alla sua verbosità, lascia alla fine l’impressione di un film che si perde un po’ nelle sue stesse chiacchiere.
