I Cani e quella stupida improbabile felicità

La folla è esattamente quella prevista. È la stessa nicchia, con le stesse facce, che nel periodo d’oro dell’indie italiano ci ha fatto (auto)scoprire un termine la cui importanza sarebbe via via problematicamente cresciuta nel corso degli anni: il sold out. Il modo migliore per celebrare il ritorno de I Cani è non darlo per scontato. Reportage di Andrea Carsana dall’Alcatraz di Milano. 

Non ce l’ha fatta Niccolò Contessa.

Sale sul palco. Il silenzio che lo accoglie è innaturale. Inizia il suo bilancio, la sua confessione. Il ritorno de I Cani, dopo nove anni di silenzio e l’uscita de botto del celebratissimo Post Mortem, avrebbe dovuto essere un evento epocale. Eppure, qui, ora, sembra solo un’eco.

Dove eravate quando è uscito il quarto album de I Cani?

La risposta di scrive a è quella di tanti, se non di tutti. Mi trovavo davanti al PC, portando avanti un lavoro che non mi piaceva, in un posto di lavoro che peraltro in questi sei mesi ho mollato. Post Mortem non mi è entrato dentro come speravo, ma l’attesa del ritorno dal vivo ha rappresentato per tutti questi mesi un asterisco, come se senza la prova del palco il giudizio non potesse essere completo. In questo scenario, l’evento generazionale prende la forma di una reunion di liceo venuta “male”?

Quanto Contessa canta Come Vera Nabokov e Hipsteria, l’effetto è straniante. I riferimenti culturali dell’epoca oggi suonano come un elenco sterile.
È la sensazione che si prova a rileggere i propri post su Facebook del 2011.

I noi che leggevamo, spontaneamente, David Foster Wallace al parco sono stati spazzati via dal maschio performativo, perennemente sul palco.

Lo spazio su Whatsapp poteva contenere solo tre quattro cose del cazzo su si è dilatato, mangiandosi il pogo de Nella parte del mondo in cui sono nato che ho idealizzato, nell’attesa, per mesi. Del resto, I Cani sono sempre stati la band sull’autoconsapevolezza. La fanbase è passata negli anni dall’essere drammaticamente autoconsapevole a drammaticamente autocontemplativa.

Mentre canto a squarciagola Post-Punk realizzo che il quarantenne della canzone non è più un personaggio grottesco da osservare con cinismo, ma si aggira inquieto fra il pubblico.

Durante il ritornello di Corso Trieste è doloroso realizzare come un progetto musicale che faceva della nostalgia istantanea il suo punto di forza in questi 9 anni sia stato mangiato dalla stessa nostalgia.

Nonostante ciò, in Calabi-Yau Contessa fa ciò che gli riesce meglio, ricordarci che esistono miliardi di mondi per fallire ancora. Quello descritto era solo uno degli scenari possibili.

Credits: Andrea Carsana

Ce l’hai fatta Niccolò Contessa.

Il concerto è stato talmente intenso ed emozionante, così aderente alle migliori delle aspettative, che è stato necessario immaginare una realtà alternativa. Il modo migliore per celebrare il ritorno (quello vero, in carne ed ossa, quello che dei primi concerti per i nati poco dopo l’89) de I Cani è non darlo per scontato.

Quante volte i ritorni tanto attesi deludono? Non stavolta, non c’è stata davvero una virgola fuori posto.

La formazione a sei elementi funziona come meglio non potrebbe, dando finalmente tridimensionalità a quella componente elettronica di cui, nelle nostre camerette, ci eravamo innamorati.

Nonostante il buio sul palco gli faccia sempre paura, è quando resta da solo che Contessa dà il meglio di sé. Sparire chitarra e voce ci ha rotto in due. Sentirsi schiacciati a due passi da Contessa lanciato sulla folla, è la perfetta descrizione di una stupida improbabile felicità.

Al pubblico de I Cani 9 anni non sono stati sufficienti per imparare a pogare, eppure non c’è nulla di più indie di una folla disfunzionale, non c’è nulla di più indie di una folla disagiata che spinge senza una ragione.

Proprio per quella classe disagiata che Raffaele Alberto Ventura definiva “troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per poterle realizzare” il ritorno de I Cani è, finalmente, la colonna sonora della nostra pace. Forse perché, come scriveva lo stesso Ventura citando Kafka, abbiamo accettato che “c’è molta speranza, ma nessuna per noi“.

Ma stasera, all’Alcatraz, va benissimo così.