La perfezione “museale” di LUX e l’esercizio accademico di Rosalía

Sgombriamo subito il campo da ogni possibile incomprensione: LUX è un grande prodotto, riesce tranquillamente ad esserlo senza dover essere celebrato come innovativo e visionario. Come spesso accade ai concept album fin troppo ambiziosi risulta un po’ vittima di se stesso. Analizziamo uno dei dischi più chiacchierati dell’anno, uscendo dalla trappola della dicotomia forzata “capolavoro/fallimento”. Articolo a cura di Andrea Carsana. 


Non avevamo visto arrivare LUX.

Quando ci si è materializzato davanti, nelle nostre cuffie, nei nostri feed, siamo tutti rimasti impressionati dall’impianto su cui era costruito: 13 lingue cantate dalla stessa Rosalía, la presenza massicia della London Symphony Orchestra e collaborazioni scelte con cura, come la benedizione dell’icona dell’avanguardia Björk e la poetica di Patti Smith. È un’opera che, sulla carta, è inattaccabile.

Lux è una cattedrale. È un’architettura magnifica, monumentale. Ci torneremo.

Rosalia ha più volte ammesso di avere un rapporto profondo con Dio, seppur non inquadrabile in codici religiosi ma più vicino al misticismo.

Qui risiede l’architrave concettuale dell’album, che tratta sante e altre figure femminili che provengono da vari culti. L’intento è quello di omaggiare queste figure in varie lingue esplorando il concetto di santità, ma nell’esecuzione, senza nemmeno scavare troppo in profondità, emergono i primi problemi.

Quando Rosalia abbandona lo spagnolo, l’impressione è più quella di assistere ad una performance per assicurarsi un qualche Guinness dei Primati.

Sia chiaro, chi scrive (così come gran parte di chi leggerà, immagino) non ha alcun base linguistica per poter giudicare la resa di Rosalia nella maggior parte dei pezzi. È altrettanto vero che la pronuncia in Mio Cristo Piange Diamanti ci restituisce la misura della cosa. Ci fa anche domandare se fosse davvero necessario.

Al contempo va registrato come le linee vocali siano di primordine dal primo all’ultimo pezzo, senza mai scendere di livello.
Ciò che più lascia perplesso nell’apparato musicale è che dopo un avvio notevole (Reliquia e Divinize su tutte) si sgonfia pian piano (fatta eccezione per La Yugular, il pezzo restituisce un notevole pathos, sfruttando a pieno l’impianto sinfonico) e rientra man mano all’interno dell’ordinario.

Pausa. Ricordiamo le premesse: London Symphony Orchestra, album dichiaratamente suddiviso in quattro movimenti. Davvero vogliamo ridurre la musica classica ai soli arrangiamenti con archi?

La critica, in piena continuità con la riduzione di tutto ai minimi termini del capolavoro/fallimento, si è espressa in acclamazioni che più che musicali appaiono morali, enfatizzando la fuga dall’algoritmo, il discostarsi dal pop usa e getta. Si tratta di concetti indubbiamente veri e apprezzabili, ma non rappresentano mai una condizione sufficiente per una acclamazione. La stessa Rosalia ci tiene a ribadire di non aver fatto ricorso all’intelligenza artificale.

Questa perfezione e questa purezza, così impeccabilmente ricercata e validata, solleva una domanda provocatoria. E se questa luce (LUX) fosse così accecante da nascondere una profonda mancanza di innovazione?

Del resto, solo 6 anni Kanye West prendeva tutti in contropiede pubblicando Jesus in King, un album con profonda influenza gospel che esplora il complesso e tutt’ora irrisolto rapporto di lunga data di Ye con la fede. Nessuna orchestra ad accompagnare, ma il Sunday
Service Choir.
Rosalia, in Berghain, trae ispirazioni dalla badessa Ildegarda di Bingen, una mistica che riceveva visioni divine. Lei stessa ha descritto queste visioni non come sogni, ma come esperienze fisiche.

All’inizio della canzone, nei versi in tedesco, le esperienze della badessa vengono citate così:
Die Flamme dringt in mein Gehirn ein
(La fiamma penetra nel mio cervello)

Nel 1964, in Mississippi, un gruppo di fedeli neri cadde in un’imboscata tesa dal Ku Klux Klan. Nel mezzo del pestaggi, una donna di nome Beatrice Cole si lanciò in una preghiera disperata ad alta voce: “Father, I stretch my hand to Thee, no other help I know.”
I membri del KKK si ritirarono, tale era la potenza del gospel. Father I Stretch My Hands To Thee, è un classico dai cantanti gospel neri che ritorna ritorna nel nono album di West, Jesus Is King.

Follow God, una delle varie gemme dell’album, è strutturata attorno al campione di una voce ardente (Father I stretch, stretch my hands to you) ripescata come solo Kanye sa(peva) fare da un pezzo del 1974, Can You Lose By Following God dei Whole Truth.

L’ambizione di LUX si rivela essere quantitativa, non tanto qualitativa. Più lingue, più musicisti, più riferimenti.

LUX è un esercizio accademico (se El Mal Querer era letteralmente la tesi di laurea di Rosalia, possiamo spingerci a parlare di dottorato) sulla spiritualità. Jesus is King è un rogo, un’opera di sottrazione. Il successo concettuale dell’album sta in
ciò che toglie. Toglie il sesso, la violenza, l’ego (o almeno, lo reidirizza), la complessità lirica e la la frizzantezza sonora.

Rosalía in LUX è una perfetta curatrice.
Kanye in Jesus Is King è un martire (auto-imposto).


Lux è una cattedrale. È un’architettura magnifica, monumentale, progettata per essere impegnativa. Ma, come molte cattedrali europee, si è trasformata in un museo. Un luogo di ammirazione (estetica), non di fede vissuta. La sua luce (LUX) è la luce artificiale e controllata di una galleria d’arte.

Il “fallimento” di Jesus is King è un gesto artistico più riuscito della perfezione museale di LUX?

Come ogni concept album, se non perfettamente riuscito risulta un po’ vittima di se stesso. Leviamo ogni possibile dubbio: LUX è un grande prodotto, riesce tranquillamente ad esserlo senza dover essere celebrato come innovativo e visionario.
Avercene di LUX, avercene di Rosalia. (Avercene di Kanye West)