Con Il capitale nell’Antropocene, il filosofo giapponese avanza una lucida e innovativa critica del capitalismo nell’era delle grandi crisi permanenti, prima fra tutte quella ambientale. Mettendo al centro quello che Marx ha ancora da insegnarci. A cura di_Alberto Vigolungo
Nel panorama della critica marxiana contemporanea, la figura di Kōhei Saitō assume un rilievo del tutto peculiare. Già autore del saggio L’ecosocialismo di Karl Marx (2017), tra i testi che più hanno contribuito alla nuova ondata di interesse verso uno dei tre grandi “maestri del sospetto”, membro del progetto MEGA (Marx-Engels-Gesamtausgabe), che negli ultimi anni ha coinvolto studiosi da tutto il mondo nella riedizione dell’intero corpus prodotto dai due pensatori, il filosofo giapponese spalanca con questo libro prospettive teoriche del tutto innovative, che ricollocano direttamente il marxismo nel “cuore” delle problematiche contemporanee, tra economia, società e ambiente, riaffermando tutto il suo potenziale d’analisi rispetto alle complessità del tempo presente. Un tempo in cui, a fronte delle tante crisi che attanagliano il mondo, le uniche costanti rimangono il dominio del capitalismo e la fiducia incrollabile in quest’ultimo: al punto che ogni proposta di risoluzione sembra non poter fare a meno di svincolarsi dalle logiche e dalle prerogative di quest’ultimo. L’operazione di Saitō è tutta tesa allo smascheramento di questo mito: l’epoca attuale, definita “Antropocene” (in riferimento alla nozione formulata da Paul Crutzen), pone urgentemente la necessità di una critica al capitalismo come sistema fondato sullo sfruttamento, non solo verso i lavoratori, ma anche verso l’ambiente, inteso come luogo da depredare al fine di creare nuova ricchezza.
In quest’ottica, la trattazione dello studioso nipponico entra immediatamente nella “carne viva” del problema mettendo a fuoco la profonda correlazione tra globalizzazione capitalista – sostanziata in quello che i sociologi tedeschi Brand e Wissen definiscono “modello di vita imperiale” – e crisi ambientale. Una relazione fondata sullo scambio ineguale tra Nord e Sud globale, dove gli effetti della crisi sono resi più evidenti nella forma di incidenti e cataclismi su vasta scala. Come da tempo rilevano le scienze sociali, in tutte queste dinamiche interviene un principio fondamentale, strettamente necessario al sostentamento del capitalismo, vale a dire l’esternalizzazione, per la quale le società dei Paesi avanzati trasferiscono il “prezzo” del loro benessere dirottandolo verso la “periferia” del mondo. Un fattore fortemente caratterizzante del capitalismo fin dalle origini, e che oltre trent’anni di neoliberismo non hanno fatto altro che spingere ai suoi limiti estremi: lo stesso in grado di alimentare fenomeni come quello del fast fashion – denunciato per prima da Naomi Klein – e del sovrasfruttamento delle risorse naturali (idriche e minerarie in testa), al centro di molti interventi di una personalità dal forte impatto mediatico come Papa Francesco, autore, non a caso, di una delle più potenti encicliche ambientaliste nella storia della Chiesa (Laudato si’, 2015).
In qualità di altro grande soggetto sfruttato dalla Storia, l’ambiente diventa così oggetto privilegiato dell’analisi delle disuguaglianze: ambiente rispetto al quale la globalizzazione, e prima ancora l’accelerazione impressa dai cosiddetti “Trenta Gloriosi”, hanno assestato solo l’ultimo colpo (seppur durissimo, come attestano le rilevazioni sulle emissioni da CO2 dal secondo dopoguerra ad oggi, con curve di andamento pressoché esponenziale).
Ma se il capitalismo e le politiche neoliberiste che, fin dagli anni ’80, hanno tentato di sprigionarne progressivamente il pieno potenziale, vengono indicati come responsabili diretti di una crisi sempre più percepita come irrisolvibile, nell’identificazione delle cause e dei fattori che alimentano quest’ultima, Kōhei Saitō non risparmia nessuno. Fin dalle premesse, la sua analisi si struttura su un rovesciamento pressoché totale degli stereotipi più triti della sinistra tradizionale, almeno quanto demolisce i miti di una certa destra che affida la risoluzione di ogni problema allo sviluppo tecnologico. In questo senso, derivati come il Green New Deal, Carbon Tax e i cosiddetti “obiettivi di sviluppo sostenibile” (SDGs) non saranno determinanti nell’invertire la rotta, perché vincolati ad un concetto incompatibile con una strategia ecologica vincente: quello di “crescita economica illimitata”. Lo stesso in cui trova esattamente la ragione per cui il capitalismo non ci guiderà fuori dalla crisi. Questi provvedimenti, continuamente rilanciati da governi e aziende del mondo sviluppato, per Saitō non rappresentano altro che il “greenwashing di un capitalismo mascherato da soggetto rispettoso dell’ambiente”.
Dunque, che cosa si trova alla radice di questo mito, che paventa la possibilità di una crescita sostenibile? Parafrasando Rockström, una vera e propria “fuga dalla realtà”. Il decoupling, ovvero il tentativo di disaccoppiare crescita ed emissioni inquinanti, si pone infatti come una contraddizione irrisolvibile, dato il rapporto di reciproca dipendenza fra questi due fenomeni. In questa prospettiva, tanto la proposta di un nuovo capitalismo basato sull’accelerazionismo (al quale l’autore dedica un intero capitolo) quanto quella di un “modello keynesiano applicato al clima”, che ispira le ricette progressiste condensate nel Green New Deal, non possono certo essere ritenute valide, in quanto mettono la crescita a comune denominatore. La critica di Saitō prende così le mosse dalla decostruzione di questo mito, assumendo un’ipotesi tanto forte quanto scomoda: la crescita non è compatibile con la salvaguardia ambientale.
“In ogni caso, è ormai chiaro che questo modello di economia non prevede la sostenibilità […] Le tesi che parlano della realizzazione di una società sostenibile, basata su quell’’economia circolare’ in cui alcuni ripongono tante speranze, sono fuorvianti. Non basta lo sforzo di attuare la circolarità, occorre diminuire drasticamente il consumo delle materie prime.”
Dinamiche riprodotte in un’equazione drammatica e al tempo stesso ipocrita, in cui di nuove ci sono soltanto le ultime frontiere dello sfruttamento:
“L’impegno dei paesi sviluppati verso una ‘crescita economica verde’ non è altro che un trasferimento dei suoi costi, sia in termini sociali che ambientali, sulla periferia. La struttura dell’imperialismo ecologico […] si sta ora riproponendo in Sud America e in Africa sotto forma di caccia ai metalli rari.”
Insomma, le attuali proposte, seppur con diverso grado, non possono essere ritenute valide ai fini di una risposta efficace ai problemi dell’ecologia, se si intende davvero fermare la corsa verso il baratro aperto dal neoliberismo e invertire la rotta prima che sia troppo tardi. Per tutti, perché dalla crisi ambientale derivano tutte le grandi problematiche dei prossimi decenni, quando il meccanismo della traslazione già descritto da Marx avrà esaurito ogni margine operativo. Di fronte ai “trastulli intellettuali” della tecno-destra, che paventano l’introduzione di tecnologie ideali in grado di risolvere i problemi ambientali, e ai “falsi miti” delle attuali ricette progressiste, come quello della dematerializzazione (diffuso in moltissime narrazioni intorno alla transizione digitale e allo sviluppo dell’economia informatica), lo studioso nipponico riprende ancora il maestro:
“Contro un Green New Deal che punta a una crescita economica illimitata si può solo dire: ‘la via per l’estinzione è lastricata di buone intenzioni’.”
Così, Saitō confuta una volta per tutte la tesi di un capitalismo “corretto”, smentendo qualsiasi soluzione che coniughi le ragioni della crescita a quelle della sostenibilità ambientale:
La necessità di non interrompere mai la crescita economica per aumentare il profitto è l’essenza stessa del capitalismo […] Tutto questo ci obbliga a combattere, ora, un capitalismo che punta ad una crescita economica illimitata.
Il mito di un capitalismo intoccabile, inteso come motore primario della crescita e del benessere, è peraltro messo in discussione dal declino inesorabile della classe media, in atto ormai da più di trent’anni, e dal conseguente allargamento delle diseguaglianze:
“Non è strano che in un capitalismo a tal punto sviluppato continui a esistere nei paesi avanzati una stragrande maggioranza di popolazione che resta povera e le cui condizioni di vita sono destinate a peggiorare?”
Evidenziate le contraddizioni insite nelle teorie alla base della maggior parte delle narrazioni politiche sulla crisi climatica, tanto a destra (vedi accelerazionismo al centro dei lavori di Bastani e Srnicek) quanto a sinistra (vedi crescita verde come concetto chiave di programmi come il Green New Deal europeo), Kōhei Saitō inizia a delineare la sua proposta muovendo al cuore del pensiero dell’ultimo Marx, aggredendo con precisione filologica lati oscuri e debolezze di una certa tradizione che continua a limitare il proprio campo allo studio del Capitale. Nel rivelare la svolta teorica compiuta dal filosofo tedesco in un momento ben preciso della sua ricerca, da marxista critico dei marxisti, Saitō illumina un’eredità sorprendente, rilanciando l’attualità di un pensiero a lungo incompreso dagli stessi esperti. In questo senso, la via per costruire un mondo veramente equo e sostenibile deriva direttamente dall’ultima evoluzione del pensiero marxiano, sostenuto dagli studi naturalistici e sul definitivo abbandono dell’approccio eurocentrico, che va sotto il nome di “comunismo della decrescita”:
“Un progetto che prevede di frenare un capitalismo che si è spinto troppo in avanti, e che immagina di mettere al primo posto il rapporto tra uomo e natura.”
In altri termini, un progetto che miri ad un “ridimensionamento dell’economia”, ad un suo “rallentamento” che, sottolinea più volte l’autore, non implica affatto un ridimensionamento del ruolo della scienza e della tecnologia. A livello pratico, si tratta di traghettare le società occidentali verso un post-capitalismo basato su un’economia a carattere costante, che implichi un abbassamento degli standard di benessere alla seconda metà degli anni ’70, cioè prima che venissero poste le basi della globalizzazione e della liberalizzazione dei mercati. Il tutto, insieme al recupero di pratiche di gestione collettive verso beni e risorse di importanza primaria. Una visione che mette al centro un concetto che Marx mutua direttamente dalle sue ricerche in ambito biologico e fisiologico, quello di “metabolismo”. In questo senso, la gestione efficace della crisi ambientale e climatica dipende strettamente da una democratizzazione dell’economia, fondata su un “ricambio organico” che freni i meccanismi di sfruttamento delle risorse e traslazione dei costi esasperati dalle dinamiche della globalizzazione.
Sotto questi aspetti, la speculazione si spinge ben oltre, non soltanto rispetto alla critica ancora oggi ferma al produttivismo, ma anche all’ecosocialismo sviluppato nel Capitale, affermando l’importanza di una visione non eurocentrica e che prende spunto da una nuova riflessione sulla nozione di bene comune, così come sulla dialettica tra ricchezza e prosperità già brillantemente descritta da Lauderdale nel XIX secolo. In questo Marx “unveiled“, riflesso nei tardi appunti che non troveranno mai una sistemazione organica (ai quali proprio il progetto MEGA tenta di dare nuova luce), che l’autore non esita a definire come “l’autentico testamento intellettuale di Marx per la società del futuro”, si trova insomma per Saitō il seme di una visione diversa di economia e società, finalmente riconciliate con la natura.
Come affermare allora, un nuovo modello che abbia come obiettivo la prosperità, stravolgendo completamente l’attuale paradigma incentrato sulla crescita? Sempre guardando alla prospettiva dell’ultimo Marx, un importante riferimento è rappresentato dai modelli di gestione dei terreni agricoli presenti in molte società precapitaliste, dalla Russia all’Inghilterra, passando per la Germania. Ed è proprio a questo punto che il testo muove dal piano dell’analisi a quello dell’azione, delineando gli elementi di un “manifesto” per la giustizia climatica che, attraverso l’esposizione di alcuni virtuosi case studies osservati negli ultimi anni soprattutto in Europa, indica una strada possibile. Una strada su cui si sono ormai incamminati anche economisti con approcci meno radicali, come lo stesso Piketty.
Le quasi 300 pagine de’ Il Capitale nell’Antropocene, tradotto in Italia quattro anni dopo la pubblicazione in Giappone, dove è diventato un best seller da oltre mezzo milione di copie, costituiscono certamente un’opera illuminante per capire le direzioni dell’umanità nei decenni a venire, riaffermando l’attualità del pensiero marxista ben oltre l’analisi dei problemi del capitalismo contemporaneo, e aggiungendo il pregio di una proposta. Certo, il rigoroso e appassionato saggio di Saitō Kōhei non riesce a liberare il lettore dalla sensazione di confrontarsi con un’utopia fin troppo spinta, che deve fare i conti con un capitalismo oggi sempre meno messo in discussione, peraltro in un contesto che vede la più importante democrazia del mondo alle prese con l’ormai completa saldatura tra potere politico ed economico, rappresentato soprattutto delle big tech, che non a caso vedono nel trumpismo un’occasione irrinunciabile per inciderne il corpo profondo, se non per annientarla in modo definitivo. Insomma, dalla sua pubblicazione il mondo sembra essere andato in tutt’altra direzione ma, se esistono ancora libri in grado di risvegliare le coscienze dal torpore di un consumismo come fine e di un eterno presente, e di indicare la via per guardare la realtà in modo diverso, il volume di Saitō Kōhei è certamente uno di questi.
