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Trovo molto interessante il fatto che, da quanto ho letto, tu voglia un po’ combattere una certa “dipendenza da computer” nell’esecuzione della tua musica: rispetto agli esordi e arrivando all’oggi, come si è evoluto il tuo set live?
Per quest’ultimo album ho sentito un bisogno urgente di allontanarmi dalla mia dipendenza dal computer, soprattutto nel live, visto che ogni giorno mi ritrovo a produrre musica con questo strumento. All’inizio, per gestire quasi tutto, nel live precedente usavo Ableton, ma col tempo ho cercato di costruire un set più dinamico, più “umano”, con l’intenzione di lasciare spazio all’improvvisazione e all’interazione sul palco. Ora il set è molto più “suonato”: uso synths analogici e digitali, effetti dal vivo e mi affido di più al dialogo con i musicisti. Questo approccio mi fa sentire più connessa con il presente, con ciò che accade al momento.
A tal proposito so che suoni con due musicisti di estrazione jazz, come jazz del resto è anche la tua formazione: cosa puoi dirci del vostro incontro artistico?
Il jazz è stato il mio primo amore musicale, e ancora oggi ne porto dentro il respiro. Con due musicisti come Riccardo Chiaberta e Christos Stylianides, che provengono anche loro da quel mondo, ma con una grande apertura verso l’elettronica e la sperimentazione, c’è stato un incontro naturale. Loro comprendono la fluidità e, a tratti, l’imprevedibilità che cerco, e allo stesso tempo sanno supportare strutture elettroniche più complesse senza appiattirle. È un dialogo continuo, quasi una conversazione astratta che prende forma ogni volta in modo sempre diverso.
Sei alla ricerca di qualcosa di intimo e profondo nella fase di composizione, da questo punto di vista che “scambio” hai avuto col pubblico? Trovi che le tue canzoni in qualche modo si siano evolute portandole in giro?
Assolutamente sì. Ogni live è come un test emotivo: alcune canzoni si aprono, altre si trasformano del tutto. Il pubblico ti restituisce un’energia che modifica il pezzo, anche solo nel modo in cui lo suoni o lo vivi. E capita che dopo alcuni concerti torni in studio con delle ispirazioni e intuizioni nuove. È come se la musica prendesse coscienza di sé solo nel momento in cui viene condivisa.
Pubblichi sulla label Innovative Leisure, un nome-un programma: come è nato e come si sta sviluppando il rapporto con loro? Ti piacerebbe a tua volta produrre dei dischi o lavorare per una etichetta? Penso un po’ al percorso di IOSONOUNCANE che ci porta a Daniela Pes etc.
Innovative Leisure mi ha dato una grande libertà, fin da subito. Tutti nell’etichetta sono molto attenti all’identità artistica e al tempo necessario che occorre per svilupparla. Con loro c’è un dialogo autentico, quasi familiare. Quanto alla produzione: sì, è una strada che mi interessa molto. Mi affascina l’idea di accompagnare altri artisti nella costruzione del loro suono, come è successo tra IOSONOUNCANE e Daniela Pes — un legame profondo e raro. Credo nel lavoro collettivo, nella cura reciproca tra artisti.
Sei stata turnista per i These New Puritans, una band particolarmente sfuggente, nel senso di difficile da catalogare: come è stato lavorare con loro? Pensi l’esperienza come turnista si possa replicare? E, potendo sognare, con chi ti piacerebbe suonare?
È stata un’esperienza intensa. Mi sento molto grata a loro. Sono meticolosi e visionari. Essere parte del loro universo è stato un esercizio di ascolto profondo e ho imparato tantissimo. Al momento collaboro con loro in studio ma non live. Sono felice di suonare e collaborare con tante formazioni diverse e sono sempre aperta a nuove.
Allora per rispondere alla tua domanda (e potendo sognare), ti direi che mi piacerebbe collaborare con Four Tet 🙂
Titolo e parola chiave del disco è “Closer”, a sottolineare una ricerca di vicinanza, profondità, intimità. In questa bizzarra epoca dell’iper-connesione in cui ogni tanto paradossalmente sembra di essere sempre più lontani. Ti stai avvicinando a quello che cercavi?
È una ricerca in divenire. “Closer” è nato proprio da questo desiderio di connessione più autentica, sia con me stessa che con gli altri. In un’epoca in cui siamo iper-connessi digitalmente ma spesso scollegati sul piano emotivo, sentivo il bisogno di tornare a una musica più viscerale, più vulnerabile. Ogni brano del disco è come una piccola finestra su questa ricerca verso la relazione con me stessa e con gli altri.
In questo senso apro una parentesi-riflessione sull’importanza del contesto e quindi delle location per certi tipi di musica. Ok è vero che si dovrebbe “spaccare” sempre e ovunque. Tuttavia oggettivamente a certi artisti non viene davvero resa giustizia, se buttati in venue o festival totalmente fuori contesto… Tu che esperienze hai in tal senso, te lo chiedo sia da artista on stage che da spettatrice in parterre.
Contano tantissimo. Ci sono concerti che funzionano a prescindere, ma certe musiche hanno bisogno di un contesto che le accolga, non solo acusticamente ma anche emotivamente. Ho suonato in venues in cui l’atmosfera era perfetta, e tutto ha preso vita in modo del tutto naturale. Altre volte invece, sia pure con il massimo impegno, ho percepito che il luogo non fosse quello “giusto”. Come spettatrice vivo questa esperienza allo stesso modo: il contesto può elevare o addirittura distruggere un concerto.
Hai partecipato alla serie tv ELITE con un brano, corretto? Come è andata quella esperienza? C’è in generale qualcosa di molto cinematografico nella tua musica. Penso al compianto Lynch in primis, che spesso ho evocato ascoltando le tue canzoni. Come ti rapporti artisticamente a questo connubio e alla possibilità di pensare della musica per colonne sonore?
Sì, è stato inaspettato ma bello vedere inserito un mio brano in quel contesto. La musica che scrivo mi sembra che abbia spesso un impianto visivo, o che suggerisca un contesto cinematografico. Mi piacerebbe davvero moltissimo comporre una colonna sonora, entrare nel ritmo cinetico visivo e nell’emozione di un film con il suono. È una delle prossime frontiere a cui vorrei approdare.
