[INTERVISTA] Alessandro Curti al crocevia tra narrazione ed educazione

Abbiamo scambiato idee e opinioni con l’autore di “Siamo solo piatti spaiati”, tra l’eterno ritorno dei problemi adolescenziali, l’annosa questione dell’essere genitori oggi e i romanzi che – letti da piccoli – aiutano a diventare grandi. 

Quanto ti senti vicino a Davide, ragazzo protagonista del romanzo (anzi dei romanzi, ormai) e
quanto invece ti senti già completamente dalla parte degli “adulti” (essendo tu, attualmente,
un educatore di professione).

“Essere un adulto e un educatore di professione non significa aver dimenticato l’adolescente che
sono stato. Anzi, sono fermamente convinto che per essere un buon “adulto educante” (sia naturale
che professionale) per i ragazzi sia necessario rimanere in stretto contatto con quel passato che
(diciamocelo) in fondo non ci ha mai abbandonato. Questo non significa, naturalmente, comportarsi
in modo adolescenziale ma cercare di guardare i ragazzi per quello che sono realmente, scegliendo
di comunicare con un linguaggio a loro comprensibile, vivere le loro emozioni. Tutto questo,
ovviamente, senza mai dimenticarsi che si è adulti e che “forma” e “sostanza” sono due cose
differenti. Anche, a volte, la forma è anche un po’ sostanza.”

Dopo averti chiesto come vivi questa dicotomia, mi viene da crederti come pensi la vivranno i
lettori, o meglio: a chi pensi di rivolgerti di più, al lettore-ragazzo o al lettore-genitore?

Io credo che il mio libro non sia rivolto né al lettore-ragazzo né al lettore-genitore. In realtà mi
piace pensare che sia rivolto alla relazione che c’è tra questi due mondi perché entrambi possano
conoscere un po’ meglio l’altro e trovare un punto d’incontro. Leggendo il mio libro i ragazzi
potranno forse comprendere un po’ meglio il perché di alcune scelte degli adulti e, viceversa, questi
ultimi potranno forse guardare i ragazzi per quello che sono e non per l’immagine (inquinata dal
ricordo della propria adolescenza) che si sono creati della nuova generazione.”

Quanto c’è dal tuo lavoro all’interno di questo ultimo romanzo? Senza chiaramente entrare nei
dettagli, ti chiedo, Davide è una persona che ritieni di aver incontrato/conosciuto?
O è una totale proiezione funzionale a quello che volevi raccontare? 

“Davide, così come lo si impara a conoscere nelle pieghe della storia, non esiste, non è un
personaggio reale. È però un personaggio assolutamente verosimile perché rinchiude in sé i tratti di
tanti e tanti ragazzi che ho realmente incontrato nel mio percorso professionale. Ogni tratto
caratteristico di Davide esiste realmente in un ragazzo reale, anche se è stato meticciato con quello
di altri ragazzi altrettanto reale. Non si tratta quindi di una proiezione funzionale al racconto ma di
un racconto che funziona proprio perché potrebbe essere reale.”

Hai affrontato in larga misure le problematiche genitoriali anche nel tuo romanzo “Padri
Imperfetti”:secondo te qual è l’errore più grande che un genitore possa fare?

“Parlare di “errore” in educazione è quasi una contraddizione in termini perché se non esiste la
formula perfetta non può nemmeno esistere la sua antitesi.
In educazione occorre effettuare azioni pensate nel tentativo di raggiungere un obiettivo e per
questo, se una scelta è ragionata, non può essere considerata un errore ma, al massimo, una
valutazione che non ha tenuto conto di tutte le variabili in gioco.
L’unico errore che un genitore potrebbe davvero fare è quello di far governare il proprio stile
educativo esclusivamente dalla pancia dimenticando quello che dice la testa. Anche se questo è
davvero uno sforzo immane da fare ogni volta perché quando guardi tuo figlio l’amore che provi
per lui è talmente accecante che rischi di non vedere oltre il bagliore di quel sentimento.”

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Come suggerito poco sopra, il personaggio di Davide non è “nuovo”: lo abbiamo già
incontrato nella tua produzione; e ne stiamo in qualche modo osservando la crescita. Hai il
suo percorso già tutto “in testa” o lo stai sviluppando passo dopo passo, magari anche a
seconda dei feedback ottenuti dai libri? 

“Pochi forse se ne saranno accorti ma Davide è presente, in modo marginale ma assolutamente
funzionale alla storia, in due dei miei libri prima che cominciassi a scrivere quello in cui è
protagonista. In Padri Imperfetti e Sette note per dirlo il lettore più attento si sarà accorto di questo
personaggio che, in modo quasi silenzioso, attraversa le narrazioni. Ma la scelta di trovargli una
collocazione in quasi tutti i miei scritti non è determinata dai feedback ottenuti dai lettori sul suo
personaggio quanto dalla voglia di trovare un fattore comune (oltre alla presenza di Andrea) che
faccia capire che le vite delle persone sono sempre legate anche se in modo sottile.
E poi, se Andrea è l’educatore che vorrei essere, Davide probabilmente è un po’ il ragazzo che sono
stato…”

Difficile non chiederti qualcosa sul rapporto coi tuoi genitori: voglio solo sapere se ti ha
influenzato nello scegliere questo percorso professionale.

“Quando ho cominciato a fare questo lavoro pensavo che non ci fosse nessuna relazione con la mia
storia e il mio processo di crescita ma poi, piano piano, inizi a scoprire (qualche volta in modo
naturale, altre in modo anche dirompente) che questo lavoro non lo si può scegliere a caso. Un
supervisore che ho incontrato tanti anni fa continuava a ripetere a tutti noi educatori che il motto
“medico cura te stesso” ha un preciso significato perché scegliamo la professione che meglio può
curarci. Non significa che per fare l’educatore devi necessariamente aver subito dei traumi che devi
“curare” ma che hai una sensibilità particolare a rileggere la tua storia personale e utilizzarla come
strumento professionale. Certo, se i miei genitori sapessero che tipo di adolescente sono stato
veramente (e non mi avessero visto solo per quello che volevo mostrare loro) probabilmente mi
avrebbero ucciso. Per questo io voglio guardare mia figlia con occhi sempre curiosi per capire che
tipo di persona stia diventando, consapevole che non sarà mai quello che io vorrei fosse. E per lo
stesso motivo invito sempre i genitori a cercare di fare altrettanto. Solo così potranno convivere con
l’adolescenza dei loro figli.”

Ritieni “Siamo solo piatti spaiati” una storia molto “ontemporanea” oppure pensi possa
essere trans-generazionale ed essere applicata a vari periodi storici, con le dovute differenze?

“L’adolescenza, al netto dei tempi che cambiano, in fondo assomiglia sempre a se stessa perché i
meccanismi evolutivi non cambiano. È differente il contesto, certamente, e tutto va calibrato e
(appunto) contestualizzato. Ma un adolescente è sempre un adolescente: un ribelle rispetto a ciò che
è stato prima di lui.”

Parlando di adolescenze complicate ma anche di formazione: quanto pensi che la letteratura
possa aiutare ad affrontare alcuni problemi della propria esistenza? Hai 1-2 o più libri che
ritieni ti abbiano formato particolarmente nel periodo dell’adolescenza? (Non i tuoi libri
preferiti quindi, ma quelli che hanno avuto un significato importante in quel preciso
frangente)

“Leggere aiuta a crescere perché permette di vivere più vite di quelle che potresti affrontare nella tua
esistenza. Ricordo come se fosse oggi l’estate del 1990 quando, con un gruppo di amici, ho
viaggiato a soli 18 anni in un’Europa che stava cambiando. Girovagando tra la Berlino del Muro
appena caduto, la Praga dove potevi finalmente camminare per strada cantando senza che nessuno ti
arrestasse, il campo di concentramento di Auschwitz che nel suo silenzio urlava il dolore di una
storia ancora troppo vicina al presente stavo leggendo 1984 di Orwell. Un libro che mi ha formato
come uomo libero e forte sostenitore di uguaglianza. Credo sia, nella mia vita, il libro che mi ha
fatto diventare l’uomo, il padre, lo scrittore e l’educatore che sono.”