Presentato in anteprima nazionale lo scorso 21 marzo, May December aggiunge un nuovo tassello alla personalissima indagine di Todd Haynes sull’elemento femminile, con un dramma psicologico che mette in scena il doloroso confronto tra due caratteri forti: la protagonista di un discusso caso di cronaca e un’attrice venuta ad incontrarla in preparazione al film che ne ricostruisce la vicenda. Nel suo scavare l’universo interiore di due donne differenti per età ed esperienze, l’ultima opera del regista americano si manifesta come un’opera seducente e raffinatamente ambigua, illuminata dalle prove sontuose di Natalie Portman e Julianne Moore. Di Alberto Vigolungo
In collegamento con 80 sale in occasione della prima italiana del suo film, Todd Haynes lo ha detto chiaramente: le sceneggiature di May December (su soggetto di Samy Burch e Alex Mechanik, liberamente ispirato ad una storia vera) in circolazione erano tante, ma quella messa nelle sue mani da Natalie Portman lo aveva convinto immediatamente. Era il 2020, il mondo in lockdown, produzioni rinviate ad imprevedibili date da destinarsi, tutto a mancare improvvisamente, tranne il tempo. Per leggere, soprattutto. Così, il cineasta losangelino ha potuto dedicarsi più del solito alla lettura dello script firmato dallo stesso Burch, rimanendo colpito da un testo “brillante, intelligente e pieno di azioni non risolte”; il film rimane in effetti fedele a tutti questi caratteri, brillando di una complessità che ammalia lo spettatore per l’insolvibilità dei suoi personaggi. Ripensando alla particolare natura del progetto sin dalla fase di pre-produzione (e al retroscena appena citato), si potrebbe dunque affermare che le sceneggiature di May December erano tante almeno quante sono le facce di Gracie, figura da cui emana tutto il fascino magnetico di quest’opera.
La trama di May December, in sintesi
A Savannah, Georgia, l’attrice di successo Elizabeth Berry incontra Gracie Atherton-Yoo, protagonista di un vecchio scandalo sollevato dalla scoperta della relazione della donna (allora 36enne) con un ragazzino di 12 anni, Joe, suo attuale marito, in vista del film sulla sua storia. Per alcuni giorni Elizabeth è ospite della dimora degli Yoo, dove la donna vive circondata dalla natura e pratiche semplici, tuttavia non senza subire, ancora dopo tanti anni, inquietanti manifestazioni di ostilità da parte di ignoti.
Incontrando le persone a lei care, rileggendo le cronache dell’epoca ed entrando in particolare intimità con Joe – padre trentenne di due figli in procinto di partire per il college, fragile e consapevole allo stesso tempo – l’attrice si immerge nel mistero di Gracie, avvolgendosi sempre più nelle trame di un rapporto per il quale il processo di identificazione seguito per dovere professionale si trasforma progressivamente in una sorta di ossessione, in una totale volontà di compenetrazione, per la quale è disposta a rinunciare ad ogni velleità personale, attraverso un processo che passerà anche per la conquista sessuale del partner della donna.
L’anima vibrante del film si riverbera in questo continuo gioco di specchi che riflette la serrata dialettica tra personalità decise, e in cui l’idea della metamorfosi, rimarcata nell’hobby di Joe per le farfalle, assume una valenza simbolica forte.
Frammenti di verità davanti ad uno specchio
Alla luce di questo rapporto complesso, centro di gravità permanente dell’intera opera, l’esegesi di May December si interpreta come il progressivo confronto/scontro di due poli lontani, che si manifesta non soltanto nel dialogo tra tipi psicologici carismatici, ma tra la realtà cruda ed inspiegabile e il desiderio di una rappresentazione animata da un impulso realistico totalizzante. “Mi sto avvicinando a qualcosa di vero”, è la frase che Elizabeth dichiara febbrilmente durante una conversazione al telefono con il suo agente, restituendo il senso di un’attrazione dalla quale non è più possibile sottrarsi (e che anzi finisce per sconfinare in una certa morbosità).
Al di là delle convenzioni, dei pregiudizi preliminari e del loro ruolo sociale, la distanza iniziale tra Elizabeth e Gracie (che porta scolpita nel suo stesso cognome la forte cesura che ha caratterizzato la propria vita, determinando in maniera netta un “prima” e un “dopo”) è cristallizzata in una diversa concezione del tempo: mentre la prima rivela di subire un certo influsso del passato, la seconda afferma di pensare soltanto al presente, rafforzando il sospetto iniziale dell’attrice, che vede in lei una donna apparentemente “senza dubbi né vergogna”.
Il culmine di questa dialettica tutta al femminile è catturato in un piano sequenza a camera fissa, che immortala le protagoniste davanti ad uno specchio, intente a truccarsi a vicenda: in questa atmosfera dalla forte quanto pacata carica sensuale, i tentativi di reciproco svelamento si svolgono in una sottile messa a nudo che passa attraverso le parole e gli sguardi, e in cui l’”azione” reciproca sui rispettivi volti (metafora visiva fin troppo evidente di una ricerca determinata sull’identità e sull’immagine dell’altra) restituisce frammenti di verità, pur certificando definitivamente l’ambiguità e irriducibilità dei loro drammi: per Gracie, il peso di un passato che ha lasciato ferite insanabili, per Elizabeth il motivo della sua attrazione per l’altra.
In questa sapiente costruzione, si osservano le “movenze” di un contatto doloroso, in cui le direttrici comunicative sono modulate dalle posizioni assunte dalle due figure (inizialmente frontali, poi di profilo) e dagli sguardi (dapprima indiretti, “mediati” dallo specchio, poi diretti), in un climax che rievoca l’intensità espressiva di certe scene bergmaniane. In questo piano sequenza dall’atmosfera intima e deliziosamente ambigua, in cui la regia si pone letteralmente al servizio dell’interpretazione, si sublima l’incontro tra due misteri, il cui senso è costantemente evocato da Haynes in scene che terminano con carrellate ottiche in avanti, come a ribadire giganteschi punti interrogativi.
Il confronto/scontro tra due poli lontani
In questo processo di immedesimazione, che la spinge ad indagare sempre più a fondo l’enigma del rapporto tra realtà e rappresentazione, Elizabeth Berry è figura al centro di una vera e propria metamorfosi, che la spinge ad abbandonare le sue certezze e a mettersi sempre più in gioco, incidendo sulla vita di Gracie fino a destabilizzare l’equilibrio della coppia; ma se al termine di questa esperienza entrambe apprendono qualcosa di nuovo su se stesse e sulla loro relazione con il mondo, il finale testimonia a chiare lettere una consapevolezza da parte di Gracie (di sé e dei meccanismi della rappresentazione) spiazzante, certamente superiore a quella di Elizabeth, in una battuta che concentra tutto il suo orgoglio, e che decreta la fine dell’”apprendistato” della sua ospite.
In poche parole, pronunciate a margine della cerimonia di diploma dei figli, la donna consegna un’ultima lezione all’attrice venuta ad indagarla, fornendo al contempo un’indicazione netta sulla messa in scena del suo personaggio: “Le persone insicure sono pericolose, vero? Io non sono insicura, e voglio che lo mostri”. Alla luce di queste parole, pronunciate da una persona che sembra sapere da sempre ciò che vuole, Elizabeth assume le sfumature di un personaggio hitchcockiano (a tratti, addirittura lynchano), intrappolato nella tela di un potere implacabile e determinato. Per contro, il dramma che perseguita il personaggio interpretato da Julianne Moore scaturisce proprio dalle sue difficoltà nel gestire questa personalità magnetica, così come dal potere altrettanto implacabile di una società che vive di scandali e dispensa per tutti i ruoli di “buono” e “cattivo” .
In May December la dimensione femminile riveste un ruolo di dominazione
Dopo l’ottima prova thriller di Cattive acque (2019), Todd Haynes si riannoda con May December all’autentico “filo rosso” del suo cinema: l’identità femminile e il suo posto nella società. Lo fa invertendone i tradizionali rapporti di potere, abbattendo ogni residua pretesa maschile di dominazione (sessuale in primis): se in opere come Safe (1995), Lontano dal Paradiso (2002) e Carol (2015) permane “un problema di dipendenza e partecipazione al potere”, per cui le aspirazioni al potere di donne determinate si proiettano ancora in un’orizzonte definito da logiche maschili, in May December i termini di questa dialettica sono completamente rovesciati, attribuendo interamente alla dimensione femminile un ruolo di dominazione; nonostante il traumatico confronto che segna la loro dialettica, e che le spinge nei recessi più oscuri della loro coscienza, la “predominanza” delle figure di Elizabeth e Gracie non è infatti mai in dubbio, così come la loro libertà da qualsiasi condizionamento o appannaggio di genere.
Rispetto a queste dinamiche di genere, in May December quello delle donne è un potere pressoché assoluto, “davanti al quale gli uomini soccombono”. Ponendo l’accento su questo elemento di orgoglio femminile, l’opera vira con toni decisi verso quello che può essere definito un vero e proprio saggio psicologico sulla natura dell’interpretazione e dell’autofiction, che, secondo il regista americano, risponde in primo luogo ad una sorta di istinto di sopravvivenza, come strumento fondamentale di “risoluzione dei nostri conflitti”. Accanto a questo magnetico affresco femminile denso di ambiguità e contraddizioni, il valore del film risiede certamente in una vena metadiscorsiva ricca di spunti, che contraddistingue peraltro diverse pellicole di rilievo uscite ultimamente.
Julianne Moore e Natalie Portman assolute protagoniste
Sotto tutti questi aspetti, Julianne Moore e Natalie Portman si ergono a vere e proprie dominae di un dramma in cui Todd Haynes estende ulteriormente la sua indagine sul femminile, mostrando un’intesa ancor più sorprendente se si pensa alla loro diversa esperienza sui set del regista californiano: se Moore, al suo quinto film sotto la regia di Haynes, reca un legame indissolubile con la sua filmografia, per Portman (qui anche in veste di produttrice) si tratta di un esordio che arriva dopo lunga collaborazione, da cui deriva l’idea stessa di realizzare il film. Una sfida alla quale entrambe, conferma il cineasta, si sono preparate a lungo.
La complessità del film, distillata dall’interpretazione delle due star, si completa poi efficacemente – come spesso accade nelle opere di Haynes – con la musica, in particolare con il tema ispirato al brano che il grande compositore Michel Legrand realizzò per il Losey di Messaggero d’amore (1971), una delle prime “folgorazioni” cinefile del regista americano e da lui rivisto poco prima di mettersi al lavoro sul suo nuovo film.
Se May December è Haynes al quadrato, gli amanti del cinema di questo autore – al quale peraltro cominciano ad essere dedicate diverse retrospettive – non rimarranno certo delusi. Come per il Joe interpretato da un ottimo Charles Melton, risulta difficile per lo spettatore resistere al fascino dell’opera di un regista che, a più di 30 anni dall’esordio di Poison, continua a considerare la metamorfosi come l’unico, vero principio della sua ricerca, ispirando un processo che lui stesso descrive con questa bellissima frase: “esplorare l’ignoto da nudo”.