Le radici giamaicane e i fiori della dancehall sbocciati a Brooklyn

In Italia la cultura black rimane, nonostante i successi di certi generi musicali, sempre un po’ nell’ombra. L’ennesimo prezioso documentario targato SEEYOUSOUND contribuisce a colmare questa lacuna: il regista Benjamin Di Giacomoci racconta le origini e l’ascesa della dancehall, dalla Giamaica alla Grande Mela. Articolo a cura di Norman Gontier. 

BAD LIKE BROOKLYN DANCEHALL racconta la crescita della dancehall dalle sue radici tra i sound system di Kingston fino alla sua impollinazione incrociata attraverso la diaspora giamaicana di New York City, il quartiere di Brooklyn in particolare. Attraverso interviste coinvolgenti con i pionieri del movimento dancehall intervallate da filmati d’archivio inediti, il documentario esplora come questa musica immigrata, grezza e provocatoria, sia arrivata alla ribalta internazionale attraverso il lavoro di artisti di alto profilo come Shaggy e Sean Paul (tra i produttori del documentario) espandendosi fino a influenzare più generi della musica mainstream.

Il doc è una perfetta introduzione a una delle sottoculture che in Italia viene spesso relegata a musica da discoteca di provincia dove le ragazze twerkano e i ragazzi fingono di essere dei rude boy: per fortuna non è solo questo, anzi è una sottocultura che ha molto da raccontare, che è consapevole delle proprie radici reggae ma che si evolve così tanto da generare una nuova visione del genere stesso fino ad essere uno dei sottogeneri più influenti tra gli anni novanta e i duemila (tutti avete ballato su qualche hit di Sean Paul almeno una volta nella vita!).

Questa consapevolezza delle radici e amore per la musica viene trasmessa perfettamente da Shaggy e Sean Paul che in un racconto a tappe cercano di dare le linee guide per comprendere la nascita, la crescita e l’evoluzione della cultura dancehall. Benjamin Di Giacomo suddivide il racconto in varie parti per riuscire a seguire cronologicamente il fenomeno culturale. Iniziando con un’introduzione al roots reggae per poi definire le differenze con la dancehall che tramite l’immigrazione a brooklyn, la digitalizzazione degli strumenti e i sound system negli scantinati inizia a formarsi un genere legato molto di piu ai bassi, a ritmi più veloci e quindi musica da party.

Da qui inizieremo a vedere i primi luoghi dove si svolgevano le feste, la costruzione di sound system sempre piu potenti, i clash tra varie crew ma soprattutto la nascita dei cantanti. I video d’archivio mostrano varie leggende del genere che iniziano a dare voce alla musica come Shabba Ranks e Ninjaman, lo stile di questi mc è una fusione tra il reggae e il rap, proprio perchè erano due linguaggi che in quel momento a Brooklyn stanno ridefinendo la cultura giovanile, difatti nel documentario ci sarà una gran parte dedicata alla fusione di questi due generi in costante dialogo tra loro. Tutti e due nati dal degrado, risposte alla violenza di vite al limite che rappresentavano un’America nascosta e distrutta ma che aveva voglia di evadere e di far fiorire le varie identità dei vari popoli immigrati negli USA. Una delle scene che mi ha sorpreso è quella dove Dj Kool Herc mostra lo storico appartamento 1520 sedgwick avenue, forse la prima volta che lo vedo in video ed è stato strano scoprire che erano delle feste veramente piccole che poi hanno generato eventi straordinari.

Ma il documentario non si ferma e racconta anche le storie delle prime etichette e radio legate al genere che iniziarono a lavorare ai primi vinili e tape fino a passare alle registrazioni dei dvd degli eventi più importanti come il PASSA PASSA. L’ambiente della dancehall si riempie di figure professionali che riescono a creare degli spazi culturali che hanno esportato la music al di fuori dei quartieri di New York. Sono rimasto affascinato  dalla curiosa storia di come una donna asiatica sia  diventata la proprietaria di una delle più grandi etichette di musica reggae Usa, la storia di Patricia Chin con la VP RECORDS penso sia la parte più rappresentativa di tutto il documentario, su come l’immigrazione porta la nascita di cultura, lavoro, confronto e crescita di un quartiere ma non solo di una nazione che crea un meltin pot culturale.

La seconda parte del documentario si concentra sul concetto di party – il cuore pulsante della cultura – e della nascita di un modo specifico di ballare questa musica sul dancefloor all’interno delle serate.

Vengono intervistati ballerini e ballerine che sottolineano il legame tra i passi e le liriche dei cantanti, cercando di dare una profondità e una contestualizzazione ai passi provocatori, figli della violenza dei rude boy e della ricerca della sensualità delle gyal. Forse questa è la parte più problematica del doc perchè non c’è abbastanza approfondimento e analisi sui lati più oscuri della dancehall che sono il violento machismo e l’estrema oggettivazione della donna, purtroppo questi elementi vengono poco discussi e risolti con un paio dialoghi che non portano soluzioni alle criticità legate alla violenza, figlia della mentalità delle gang che porta misoginia, omofobia e mitizzazione delle armi, che non possono essere risolte con la risposta: “Sono fattori culturali ed è così che ci esprimiamo”. Il poco interesse riguardo questi aspetti mia ha un po’ deluso perché non si può parlare di una cultura senza analizzarne le criticità e cercare di dare spazio alle voci delle nuove generazioni che vogliono rompere certe barriere.

Il documentario finisce con la festa del labor day conosciuta come West Indian day parade, una sfilata che si svolge agli inizi di settembre dove tutte le culture nate dai popoli caraibici si esibiscono tra le strade principali di Brooklyn, passando dalla musica tradizionale fino ad arrivare al soca, una celebrazione di popoli che portano con orgoglio tutte le loro culture tra carri con artisti e dj che si esibiscono circondati da abiti tradizionali, pieni di colori che rappresentano le isole da cui provengono. Bad like brooklyn dancehall è il modo ideale per scoprire un genere che spesso viene relegato al “party hard”, quando invece è anche un modo per evadere da una realtà di quartieri molto degradati e poveri. Purtroppo in un’ora e mezza è difficile riuscire a raccontare trent’anni di cultura ma nel documentario emerge un amore sincero per una cultura.

QUI continua il reportage dell’edizione 2024

Durante la visione del film ho scoperto parecchie canzoni che voglio inserire in fondo all’articolo perchè sono delle perle che potrebbero salvare le vostre feste, cosi per sentirsi un pò a Brooklyn anche se si è ad Aurora o a Cascine Vica.

  • Ninja Mi Ninja di Ninjaman
  • These thins are true di Rico Rodriguez
  • Old time rhythm di Mr tee
  • Plastic smile di Black Uhuru
  • Badder den dem di Burro Banton e Massive B
  • Bogle move di Elephant Man
  • Radio di Nonso Amadi
  • Ride di Marcy Cin

Articolo a cura di Norman Gontier