Diamo un’occhiata al film che si presenterà con cinque nomination ai prossimi premi Oscar, già vincitore della Palma d’oro a Cannes 2023. A cura di Alberto Vigolungo.
Il ritrovamento del cadavere di un uomo davanti alla sua abitazione è l’evento che sconvolge un ambiente familiare da tempo sull’orlo del baratro, facendolo precipitare in un gorgo di paure, sospetti, congetture, ricostruzioni più o meno plausibili. Dopo che la donna viene assolta dall’accusa di omicidio cui alcuni dettagli farebbero pensare, lei e il figlio si ricongiungono per un nuovo inizio. Justine Triet firma un thriller sagace, in grado di interrogare i criteri della soggettività, i temi della colpa e dell’invidia, i meccanismi (consci ed inconsci) della scrittura, giocando con i registri e gli stereotipi della cronaca televisiva.
Anatomia di una caduta è la prova “matura” del percorso di Justine Triet
Rivelatasi alla critica internazionale nel 2013 con La battaglia di Solferino, lungometraggio d’esordio con il quale sublimava, attraverso il profilo pubblico e privato del François Hollande vincitore alle elezioni presidenziali francesi dell’anno prima, la prima fase di una ricerca caratterizzata dall’interesse per l’attualità politica e sociale, e definitivamente consacratasi nel 2016, quando la sua commedia a sfondo legale Victoria fu selezionato come film d’apertura al Festival di Cannes, Justine Triet è autrice di un cinema elegantemente introspettivo e sottilmente costruito attraverso un originale equilibrio tra gli elementi formali del linguaggio, con particolare attenzione alle potenzialità del rapporto tra immagine e suono.
Sotto questi aspetti, Anatomia di una caduta può essere considerato come prova “matura” di un percorso sempre più personale, irresistibilmente attratto dalla natura delle relazioni e del loro collocarsi nella società, sfociando in un film nel quale lo scavo nell’ambientazione e nella coscienza dei personaggi è elemento dominante, e certi stilemi di genere vengono sapientemente coinvolti nella composizione di un racconto multiprospettico.
La trama
Nella casa di montagna nei pressi di Grenoble dove vive con la famiglia, la scrittrice Sandra Voyter riceve una studentessa venuta ad intervistarla. Il frastuono della musica proveniente dal solaio dove il marito Samuel lavora interrompe però quasi subito il loro incontro. Qualche ora dopo, rientrando da una passeggiata con il figlio ipovedente della coppia, il cane-guida trova il corpo dell’uomo senza vita nel cortile di casa.
È l’inizio di un doloroso percorso per la donna, dapprima sospettata e poi indagata per l’omicidio del marito, e per Daniel, travolto contemporaneamente dal lutto per l’improvvisa scomparsa del padre e dalla scoperta della crisi del matrimonio dei suoi genitori. La vicenda processuale e mediatica che segue mette a dura prova il loro strettissimo rapporto, che alla fine, anche grazie all’assoluzione dell’imputata (abilmente assistita da un suo ex spasimante, l’avvocato Vincent Renzi), ne uscirà in qualche modo confermato. In fondo a questo baratro, dal quale emergono tensioni mai sopite e verità sofferte, rimane il dramma di un rapporto coniugale incancrenito da invidie, menzogne e rancori.
Una psicoanalisi densa di tante, piccole verità
Se il cinema è l’arte della manipolazione del tempo, Anatomia di una caduta è una delle dimostrazioni più intriganti di questa definizione, facendo della padronanza dei ritmi narrativi il suo tratto distintivo. Appena una scena a fare da anticamera del dramma, costruita su una sottile linea di tensione derivante dal “conflitto” sonoro tra la musica ad alto volume e la voce di due donne sedute nel soggiorno, e dall’alternanza di primi piani instabili; poi i titoli di testa (accompagnati da fotografie dell’album di famiglia sulle note schizofreniche di un pianoforte); quindi lo sviluppo “sincopato” di un racconto che assume le forme del thriller, senza che quest’ultimo assurga a dimensione dominante dell’opera, e i cui elementi, scandagliando uno dopo l’altro la condizione e il punto di vista dei vari personaggi, convergono infine in una psicoanalisi densa di tante, piccole verità. Non necessariamente connesse alla scomparsa dell’uomo.
Mentre il thriller sfuma in un legal drama tout court, rimarcato anche da un deciso cambio di scenario (non più la casa e i suoi fantasmi, ma l’aula di un tribunale), ogni residua pretesa di oggettività esplode
In questo procedere per improvvisi “salti” (temporali e della coscienza) risiede indubbiamente la forza seduttiva del film, per la quale ci si trova infine a fare i conti con un sentimento straniante: infatti, nonostante da un lato appaia quasi subito evidente che il mistero della morte di Samuel non potrà essere risolto (né dai personaggi coinvolti, né dallo spettatore), dall’altro si percepisce intensamente, e a più riprese, il sospetto che Sandra abbia avuto un ruolo.
Mentre il thriller sfuma in un legal drama tout court, rimarcato anche da un deciso cambio di scenario (non più la casa e i suoi fantasmi, ma l’aula di un tribunale), ogni residua pretesa di oggettività esplode, negli errori delle ricostruzioni postume, nelle supposizioni acuminate che animano le requisitorie dell’arrembante Pm, nelle omissioni o nei lapsus che emergono dalle testimonianze (come quella del figlio Daniel, per il quale la messa in atto di una certa manipolazione risponde ad un istintivo senso di protezione nei confronti della madre)… Progressivamente, fatti e distorsioni (volute e non volute) si fondono in un gorgo insondabile, rispetto al quale la sentenza di assoluzione della donna non chiarisce assolutamente nulla; al fondo di questa “anatomia” si delinea soltanto la forma di un dubbio infinitamente divisibile, risultato del gioco vertiginoso di Triet con i tempi della narrazione, e con i registri e gli stilemi del cinema di genere.
La questione del rapporto tra realtà e finzione, vero nucleo tematico della pellicola, fa la sua comparsa nell’incipit come problema letterario, quando la studentessa accenna al tema in rapporto ai libri di Sandra Voyter. Tema sensibile per qualsiasi scrittore, quello della relazione tra vita e scrittura (raramente affrontato in maniera davvero proficua, sia che passi per la forma dell’autofiction o del romanzo “puro”, delle quali alcuni degli esempi più brillanti sono rappresentati dagli ultimi lavori di Martin Amis e Bret Easton Ellis), nel film è pienamente coinvolto nel cumulo di recriminazioni e accuse reciproche tra la donna ed il marito.
Nella sequenza finale, in cui il flusso della registrazione di una lite furibonda tra i coniugi è alternato alla rappresentazione della stessa, ponendo su quest’ultima un’ulteriore enfasi drammatica, si scopre che il motivo profondo delle inquietudini di Samuel è collegato a questo tema, e al modo in cui ciascuno dei due coniugi lo declina nella sua vita. Qui il cortocircuito appare del tutto evidente, alimentato da esiti inversamente proporzionali: per Sandra la letteratura è successo, per Samuel un fallimento divenuto intollerabile.
La critica agli stereotipi del racconto massmediatico
Oltre a presentarsi come il frammento finale del dramma psicologico che connota in modo particolare l’ultima parte di film, il tema della finzione riguarda certamente anche la relazione tra la donna e il figlio, i quali, di fronte alla tragedia che li travolge, sono in qualche modo chiamati a fingere, omettere, negare, riformulare, per istinto di protezione nei confronti dell’altro: Sandra e Daniel fingono per salvare il salvabile, in una condizione per la quale la finzione (quindi la manipolazione dei fatti) assume i caratteri di un’urgenza salvifica e necessaria.
Ben al di là della sua rilevanza nei risvolti narrativi del film, comunque, il tema della finzione e del suo rapporto con la realtà costituisce il grimaldello per una critica agli stereotipi del racconto massmediatico e dello stesso linguaggio cinematografico, in un’ottica metadiscorsiva (suggestiva, in questo senso, la rappresentazione dell’incidente probatorio, una sorta di messa in scena della messa in scena che si configura come un saggio sulla natura ed il senso della rappresentazione).
La “caduta” di Samuel è certamente più ampia della distanza che separa la finestra della soffitta dal cortile di casa
Un altro aspetto significativo dell’opera riguarda i luoghi, che sono essenzialmente due, e che suddividono il film in altrettante parti: il primo, quello del silenzio e della disperazione privata, rappresentato dallo chalet dove Sandra e Samuel si erano stabiliti anni prima; il secondo, quello del clamore collettivo, dove risuonano accuse perentorie ed innumerevoli pretese di verità, rappresentato dal tribunale.
La dimensione privata dello chalet cede il passo all’arena pubblica, in cui predomina la dialettica tra l’imputata, il suo avvocato e il Pm; ma mentre il tribunale di Grenoble, teatro di congetture e accuse più o meno fondate, assomiglia sempre di più alle rovine di Rashōmon, rendendo manifesta l’impossibilità di una verità definitiva sulla tragica scomparsa di Samuel (incidente? Suicidio? Omicidio?), la sequenza della lite svela l’unica certezza della storia: la fine di un matrimonio, con tutto il carico di delusioni e rimorsi che esplode all’improvviso, segnando un punto di non ritorno. Davanti ad essa nessuno è innocente, anche se alla fine le ombre più buie si allungano proprio sulla figura maschile, consegnando il dramma di un uomo spezzato dalle proprie ambizioni e non più capace di riconoscere se stesso. In questa proiezione, la “caduta” di Samuel è certamente più ampia della distanza che separa la finestra della soffitta dal cortile di casa.
In queste metamorfosi narrative, che passano anche per marcati mutamenti di scenario, consiste la ricchezza di un film come Anatomia di una caduta, in cui thriller, legal drama e dramma psicologico coesistono come elementi di un fluido magmatico, procedendo verso un graduale coinvolgimento del figlio della coppia, Daniel, stretto tra il dolore per la perdita del padre e la paura di un definitivo allontanamento dalla madre.
Elaborando in modo originale i registri e gli stilemi del cinema di genere e muovendosi con disinvoltura tra di essi, il film di Justine Triet finisce per comporre un’ispirata riflessione sul linguaggio dei media e sulle loro modalità di rappresentazione. Degne di nota, in questo senso, le scene delle udienze che vedono la donna ed il suo avvocato impegnati a fronteggiare i veementi interrogatori del magistrato inquirente: indugiando sulla figura di Sandra attraverso primi piani prolungati, campi medi “obliqui” a camera fissa, brusche carrellate ottiche in avanti, la macchina da presa simula la morbosità e l’intento accusatorio delle riprese che distinguono i servizi della cronaca televisiva, delineando uno stimolante saggio stilistico sui meccanismi mediatici della colpevolezza.
Il confine tra realtà e funzione può essere sottile come una lastra di ghiaccio
In riferimento a quest’ultimo aspetto, nel seguire uno sviluppo labirintico (a tratti addirittura “schizofrenico”, come le note di pianoforte suonate dal piccolo Daniel in più di una scena) che si snoda anche attraverso generi e registri narrativi differenti, Anatomia di una caduta mette fortemente in dubbio i criteri della soggettività e del modo in cui guardiamo al mondo. La tensione dell’opera non deriva tanto (anzi, affatto) da una continua oscillazione tra innocenza e colpevolezza, quanto nel tentativo costante di scalfire, al di là di facili psicologismi, quella parete impenetrabile che è l’inconscio, di elaborare il trauma di uno scenario improvvisamente stravolto, di una condizione irreversibile provocata dal “non considerato”, com’è per Daniel lo sgomento causato dall’aver ignorato cose che accadevano davanti a lui.
Vivisezionando il corpo di una relazione morta per lenta asfissia, con Anatomia di una caduta Justine Triet richiama una verità troppo spesso dimenticata, con tutte le conseguenze che questo comporta: il confine tra ciò che consideriamo realtà e ciò che consideriamo finzione può essere sottile e trasparente – quando non del tutto assente – come una lastra di ghiaccio.