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Il collettivo Burning Tower e Hardstaff Booking portano nella black city tre artisti internazionali da tre paesi diversi: un tris che da un lato potrebbe mettere d’accordo tutti gli studenti Erasmus della vicina aula studio universitaria Murazzi Student Zone e dall’altro mette sicuramente sotto lo stesso tetto – ovvero le arcate dei Magazzino sul Po – un melting pot di generi musicali al crocevia tra metal, noise, goth e folk. Report a cura di Lorenzo Giannetti. 

L’ultima di tre date italiane – le altre due al Legend di Milano ed al Cinema Perla di Bologna nei giorni precedenti – inizia puntualissima intorno alle 20.15. Il copione era noto ed è giustamente rispettato, ma è troppo presto anche per noi che speravamo di non fare tardi in un giovedì pre-natalizio. Sacrifichiamo quindi buona parte della performance di Lys Morke, il progetto dell’artista catalana Irene Tallò che tra accordi crepuscolari e sfumature elettroniche si prefigurava come un ottimo incipit di serata.

I Kalandra sembrano la quintessenza dell’essere norvegesi: dal look all’attitudine passando ovviamente per la proposta musicale, la loro esibizione grida “Grande Nord” in ogni momento e da ogni prospettiva. Il dark-folk di matrice metal fa parte del DNA di tantissime band scandinave e loro non fanno eccezione. Hanno fatto il botto con una cover dei Wardruna ed effettivamente procedono in quella direzione, con un orizzonte comune fatto di boschi e ghiaccio a perdita d’occhio. Senza aggiungere nulla di particolarmente rilevante al canovaccio di litanie trasognate e rock sciamanico tipico del genere, va detto che i Kalandra suonano divinamente, forti della chirurgica quanto eterea presenza vocale di Katrine Stenbekk (non a caso vista già all’opera come seconda voce nei Wardruna) e di un suono stratificato e suggestivo in grado di incalzare sulla lunga distanza. C’è coesione e mestiere, manca un guizzo in più (anche se l’ultimo singolo portato in dote, “Bardaggin”, lascia ben sperare) e forse un pizzico di magia. Tuttavia l’impatto sul palco restituisce una cartolina così perfetta del mondo che i Kalandra vogliono rappresentare che non mi stupisco di scorgere un manipolo di fan veri e propri intenti a cantare le loro canzoni a memoria.

Atmosfera subito più grezza e plumbea con l’arrivo in stage di A.A. Williams, che imbraccia la sua chitarra con la solennità d’una Regina delle Tenebre in skinny jeans e tacco killer. In trio, accompagnata da tastiere e batteria tutto sommato ben amalgamati nella coltre doom con cui ha vestito le sue canzoni, Williams ha un approccio minimalista alla composizione e sulla scena: c’è un unico “orpello” sul palco, ovvero la lettera A., un neon abbagliante che a una certa potrebbe trasfigurarsi in una runa iridescente. Chiamiamola d’ora in poi A., allora: quasi una lettera scarlatta portata con orgoglio, in segno di sfida.

In un calderone di drone-metal e pagan-folk, con una resa live più “massiccia” ed irruenta che su disco, A. innesta le sue liriche dolenti e misurate, dal sapore metafisico e a tratti profetico. Una penna baciata dall’ispirazione, che la rende una cantautrice a tuttotondo, forse con un potenziale ancora sottovalutato rispetto ad affini sacerdotesse americane come Chelsea Wolfe o Marissa Nadler, alle quali fa eco oltremanica dalla sua Londra con una musica violenta e catartica, torrenziale ed ultraterrena. Inoltre, a quanto pare, in lenta ma irrequieta evoluzione: siamo curiosi di vedere dove ci porterà in futuro. Intanto il viaggio di questa notte non poteva concludersi meglio: con uno sguardo dentro l’abisso e uno slancio verso l’ignoto.

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