Utopia e sangue. La materia oscura degli anni ’70 nel saggio di Miguel Gotor

Con Generazione Settanta. Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982, Miguel Gotor dipana le tante ed intricate matasse di un periodo ancora drammaticamente ostico per l’opinione pubblica, ma non certo per la storiografia.

Di Alberto Vigolungo – “Strategia della tensione”, “Anni di piombo”, “Solidarietà nazionale”: sono solo alcune delle espressioni più comunemente associate all’immaginario degli anni Settanta italiani. Vero e proprio angolo cieco della storia nazionale, il decennio che fa da decisivo spartiacque nella vicenda della nostra Repubblica rappresenta ancora oggi un trauma non superato, spesso coinvolto a sproposito in polemiche di varia natura. Reietti, mitizzati, strumentalizzati, i ‘70 sono prepotentemente riemersi anche sull’onda di una polarizzazione del dibattito particolarmente accentuata negli ultimi anni.

“Il cammino è appena iniziato e il viaggio è già finito”, constata amaramente il merlo dalle simpatie comuniste protagonista dell’allegoria pasoliniana di Uccellacci e uccellini, in una battuta che cattura una parabola di là da venire, ma i cui segni sono ormai tangibili. Siamo nel 1966, la rivoluzione è nell’aria, e l’intellettuale bolognese ne preconizza la fine, come un sogno abortito sul nascere. In presa diretta, lo stesso Pasolini sarà uno dei testimoni più lucidi di quella crisi e delle sue degenerazioni.

“Il viaggio è già finito”, dunque, ma quel che segue dà luogo ad un lungo periodo in cui tutte le contraddizioni accumulate nei 30 anni precedenti affiorano insieme, causando una frattura storica che porta con sé la fine del “miracolo economico” e un coinvolgimento sempre maggiore dell’Italia nel quadro internazionale condizionato dalla Guerra fredda. Da questa verità prende le mosse il sottotitolo dell’ultimo libro di Miguel Gotor, che racchiude in un arco di 16 anni la genesi, lo sviluppo e il tramonto di quest’epoca “turbinosa”, che vede la forza delle utopie e degli ideali libertari degli anni ’60 cedere il passo ad un periodo di forti tensioni che misero a durissima prova la tenuta democratica del Paese, e culminato in una sequenza impressionante di stragi ed omicidi mirati, ma anche in conquiste fondamentali per la vita civile e sociale.

Considerando la portata di simili contraddizioni, la storia degli anni Settanta non può essere letta se non come la fenomenologia di una crisi iperframmentata, all’insegna dell’instabilità politica e di un conflitto sociale latente scaturito da una questione giovanile non più rinviabile.

Il “vento” degli anni ‘70 inizia a spirare in concomitanza di un evento destinato a segnare a lungo l’immaginario italiano: l’alluvione di Firenze (1966). Gli “angeli del fango” (da allora puntualmente rievocati dalla cronaca nostrana ad ogni nuovo disastro abbattutosi sul territorio nazionale) rappresentano in questo senso “il primo segno tangibile di un risveglio giovanile” in cui si manifesta certamente un ampio ed accorato senso di solidarietà, ma anche la ricerca di un protagonismo inedito da parte di un soggetto fino ad allora emarginato dal dibattito sociale.

Questa nuova consapevolezza, corroborata dalle notizie provenienti da oltreoceano dove, a partire dai campus della California, la contestazione ha già assunto una dimensione politica rilevante, ma anche le immediate reazioni ad essa contrarie, si ritrovano in moltissime canzoni e film di quegli anni, esperiti in forme nuove come quella del cineforum: qui, accanto ai film delle “Nuove onde” francesi e tedesche, e di Pasolini, si ammirano le opere di una generazione di autori “impegnati” (molti dei quali esordienti), che ha in Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Gillo Pontecorvo, Francesco Rosi, Elio Petri e Damiano Damiani le sue punte di diamante.

Sempre sul piano dell’immaginario – come sottolineato dallo storico capitolino – anche il mondo della canzone dissemina spunti interessanti, offrendo uno spaccato piuttosto rappresentativo di una realtà in subbuglio: se, da un lato, le trasformazioni economiche, sociali, culturali e di costume che cambieranno per sempre il volto dell’Italia affiorano dalle canzoni dei primi cantautori, un fenomeno particolare riguarda Gigliola Cinquetti, che con l’exploit sanremese di Non ho l’età (1964) e la sua immagine pudica riprodotta sul piccolo schermo in un bianco e nero quasi evanescente diventa l’estremo baluardo di un tradizionalismo severo e un po’ bigotto, ma certamente ben radicato nella società italiana del tempo. Proprio nella “candida Gigliola” (espressione in cui l’attributo cattolico appare sin troppo evidenti) si scorge, secondo Gotor, “l’attimo sospeso prima della violenza”, l’ultimo vagito di un’innocenza si infrangerà tra le imponenti onde del decennio successivo.

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Se questa rabbia latente monta progressivamente a partire dalla metà del decennio, lo spirito degli anni ’70 è definitivamente plasmato dal Sessantotto, che definisce il terreno ideologico dal quale muoverà la stagione dei movimenti. Ispirata dalle istanze della cosiddetta New Left statunitense (maggiore partecipazione alla vita democratica, rinnovamento della classe dirigente, allargamento della base dei diritti civili e sociali…), la contestazione nasce nelle università per poi entrare rapidamente nelle fabbriche, realizzando lo speciale connubio che sarà al centro delle vicende dell’”autunno caldo” del 1969, in un contesto di crisi della formula del centrosinistra che aveva caratterizzato vari governi nel corso degli anni ’60.

La storia degli anni Settanta non può essere letta se non come la fenomenologia di una crisi iperframmentata

L’anno spartiacque nella storia della cultura occidentale del secondo Novecento si declina rapidamente in Italia ad una deriva particolarmente violenta, che finirà per toccare picchi numerosi e gravissimi. In quest’ottica, il “lungo Sessantotto italiano” inizia con i durissimi scontri di Valle Giulia tra studenti e reparti della Celere in marzo, per terminare il 27 novembre 1969 con la rivolta di corso Traiano a Torino, punto più alto del sodalizio tra mondo studentesco e operaismo. Queste premesse costituiscono l’embrione della complessità che attraversa il “decennio più lungo del secolo breve”, in un inedito e profondo conflitto interno così come nelle epocali conquiste civili e sociali che gli danno avvio, come lo Statuto dei diritti dei lavoratori e la legge sul divorzio. Lo spazio (storico ed esistenziale) della “Generazione Settanta” sarà tutto racchiuso in questi estremi.

Tenendo sempre conto di questa vasta complessità di fondo, non bisogna immaginare il periodo in questione come una frattura netta che configuri il semplice scontro fra spinte rivoluzionarie ed ansie conservatrici, perché gli sviluppi violenti della contestazione dividono aspramente al suo interno la stessa cultura di sinistra: memorabili restano, sotto questo aspetto, le schermaglie tra i giovani intellettuali e gli autori “della tradizione”, condensate soprattutto nella dialettica tra Franco Fortini (tra le voci di riferimento del movimento studentesco) e Pier Paolo Pasolini, che prende immediatamente le distanze dal ’68, vedendo in esso l’ultimo riflesso di una violenza di classe compiuta da giovani borghesi privilegiati ai danni dei figli del proletariato (molti dei quali presenti nelle file della polizia); una posizione ribadita in modo perentorio dallo scrittore in occasione degli episodi di boicottaggio che interessano la mostra del cinema di Venezia di quell’anno, che bollerà come “fascismo di sinistra”.

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Sul fronte opposto, il quadro si presenta altrettanto movimentato, mettendo in evidenza, a vari livelli, il singolare e progressivo avvicinamento tra coloro che  temono lo stravolgimento di equilibri politici consolidati dal dopoguerra e i nuclei della destra eversiva (tra i quali spicca Ordine nuovo). Da questo processo deriva la cosiddetta “Strategia della tensione”, che ha nell’incontro dell’Hotel Parco dei Principi (1965) il suo primo tassello organizzativo, sancito dal patto oscuro tra ambienti conservatori della politica, vertici dello Stato Maggiore e dei servizi segreti, ed esponenti delle organizzazioni della destra extraparlamentare (le cui falangi armate, come si può evincere dalla lettura di alcune carte processuali, svolgeranno il ruolo di manodopera di questi progetti).

Le premesse della fase stragista 1969-1974 vengono così poste in quell’occasione, svolgendosi in un lungo filo rosso che ha i suoi estremi temporali tra piazza Fontana e piazza della Loggia, passando per la bomba del treno Italicus e il tentato Golpe Borghese. Questo disegno, riassunto anni dopo da uno dei suoi principali fautori nell’eloquente formula “destabilizzare l’opinione pubblica per stabilizzare l’ordine politico” (e che, proprio per questo suo potenziale, si rivela in grado di suscitare l’interesse di importanti esponenti democristiani come Rumor e Andreotti, ancora lontano dal suo momentum), si avvarrà anche dell’appoggio esterno della CIA, non mancando di contemplare, nella sua versione più estrema, una svolta autoritaria sulla scorta del modello greco. Proprio i legami con i servizi  segreti esteri (americani in primis) conferiscono alla strategia della tensione una  dimensione internazionale marcata, che rivela tutta la rilevanza strategica dell’Italia nello scacchiere della Guerra fredda.

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All’inizio degli anni ’70, con il prevalere della linea dello scontro nei movimenti studenteschi ormai usciti dal clima del Sessantotto, in un contesto generale di ansia di un imminente pericolo fascista i cui fantasmi si stagliano nel fumo delle bombe  milanesi e romane (e che ha i suoi prodromi nelle inquietudini e nell’iniziativa clandestina di Giangiacomo Feltrinelli), la strategia della tensione si completa dell’altra sua “faccia” storica, ossia la lotta armata, inaugurata dall’omicidio del commissario Calabresi (1972).

La galassia delle sigle della sinistra extraparlamentare, spesso in acerrima competizione tra loro, si condensa soprattutto intorno a “Prima linea”, “Lotta continua”, “Potere operaio”, capaci di dotarsi di strutture di controinformazione e bracci armati propri. Con la messa al bando ed il progressivo scioglimento di queste organizzazioni, molti loro militanti finiranno per confluire nelle Brigate rosse, protagoniste indiscusse della seconda fase della strategia della tensione. Su questa spirale si avvitano le dinamiche delle stragi e degli omicidi politici di quegli anni (senza contare le violenze che imperversano per tutto il decennio davanti a scuole, università, redazioni di giornali, uffici amministrativi, tribunali…), riflettendo il panorama di un irriducibile conflitto interno che ha pur sempre connotato l’identità italiana. Sotto questo profilo, la diagnosi dello storico è netta, a tratti spietata:

“Questo fenomeno trovò un terreno fertile per attecchire e prosperare grazie alla speciale capacità degli italiani di odiarsi tra loro in ragione di uno spirito fazionario, di una propensione alla militanza ideologica integrale […] e di una particolare disponibilità a mettersi al servizio dello straniero per sconfiggere il proprio nemico interno o vicino di casa (con un’ineguagliata miscela di provincialismo, esterofilia e cosmopolitismo), tutti elementi che costituiscono alcuni caratteri originali e di lungo periodo degli abitanti della penisola, a livello popolare e di classi dirigenti”.

In ogni caso, l’apporto degli apparati di sicurezza esteri si evidenzia tanto per il “Partito delle stragi” quanto per quello “armato”, che comincia appunto ad articolarsi in maniera più strutturata a partire dal 1971-72 per poi coagularsi intorno all’egemonia delle Brigate rosse, dominatrici degli anni di piombo che culmineranno con l’operazione Moro e che termineranno solo nei primi anni Ottanta, anche sull’onda del successo del pentitismo. Terroristi “neri” prima, e “rossi” poi, ricevono dunque un sostegno logistico importante anche dall’estero, in un contesto geopolitico internazionale segnato dal conflitto tra i due blocchi così come dal riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese. Tenendo conto di questo complesso contesto internazionale, l’ascesa del terrorismo nel nostro Paese può anche essere interpretato come l’effetto di una sempre più difficile ricerca di equilibrio tra la difesa dei supremi interessi nazionali e la “fedeltà atlantica”:

Sempre lo storico: “Il sangue stragista è zampillato da questa contraddizione storica, generata dal particolare posizionamento geopolitico dell’Italia stabilito con gli accordi di Jalta, che ha condizionato anche il comportamento dei servizi segreti fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Questo conflitto a bassa intensità è stato il segno più evidente del carattere di incompiutezza assunto dalla democrazia italiana nella seconda metà del Novecento”.

In questo senso, Gotor riconduce sempre chiaramente i sommovimenti di quegli anni ad una mappa che unisce gli sviluppi della Guerra fredda e le conseguenze di una “modernizzazione non risolta”, cui si accompagna pure l’eredità del passato fascista, dal quale derivano rigurgiti tutt’altro che secondari. Il tutto, in uno scenario economico che, seppure condizionato da importanti fattori di instabilità esterni (dallo shock petrolifero alla fine di Bretton Woods), vede il nostro Paese ancora protagonista di una crescita produttiva quasi senza paragoni (pil annuo pari al 3,7% nel periodo 1973-1980), e dove il livello dei consumi continua comunque ad aumentare interessando fasce sempre più ampie della popolazione.

Nel quadro di questo sviluppo sostenuto da un ritmo produttivo ancora elevato, la strategia della tensione continua a colpire coinvolgendo, direttamente o indirettamente, un numero sempre più ampio di attori. Pur operando in un contesto internazionale particolarmente attivo, considerando le  inevitabili ingerenze dovute al “vincolo esterno”, un ruolo centrale in questa trama dai molti risvolti è indubbiamente svolto dai servizi e dagli apparati di sicurezza nostrani: un coinvolgimento “totale”, nonostante vari pronunciamenti abbiano portato ad una definizione soltanto parziale delle responsabilità a questo livello. In questo senso, attenendosi sempre rigorosamente alle evidenze della ricerca storica, lo studioso diffida dell’espressione “servizi deviati” (troppo spesso evocata, nel migliore dei casi, in una logica auto-assolutoria), in quanto lunghi anni di indagini e sentenze hanno accertato le gravi responsabilità di importanti dirigenti e vertici degli apparati (molti dei quali risulteranno iscritti alla loggia P2) in materia di depistaggi e distruzione delle prove.

Come si è detto, il delinearsi di questi progetti occulti e dei loro esiti feroci, risponde anche ad una crisi politica latente nella giovane repubblica italiana, e che riguarda innanzitutto il suo partito più autorevole: la Democrazia cristiana. Da questo particolare punto di vista, l’inizio del decennio coincide con l’apertura di una nuova stagione politica che ha per protagonista Giulio Andreotti, alfiere di un nuovo centrismo che si propone come unica soluzione democratica all’instabilità, ma che può anche essere visto, in un certo senso, come il vero fine politico del tentato Golpe Borghese. Di fatto, le doti trasformiste del politico romano, unite ad una capacità decisamente peculiare nel mantenere il potere, rappresentano l’unica costante di una stagione politica ed istituzionale dagli equilibri assai fragili. Il ruolo storico di questa figura tanto citata quanto sfuggente è magistralmente delineata in queste parole:

“Andreotti svolse la funzione decisiva di costituire l’argine definitivo prima dello straripamento del fiume italiano sino al punto di trasformarsi nel garante di quegli equilibri oscuri, che implicarono […] anche un rapporto con la mafia e con gli ambienti massonici della P2. Andreotti fece politica lungo il ciglio di un luogo “infernale” […] in cui i flutti s’ingorgavano sino a sporcarsi, ma anche da dove si poteva provare a gestire l’estremo filtro prima del baratro del golpe […] quel golpe di cui i gruppi reazionari del periodico “Il Borghese” gli attribuivano in modo ricattatorio l’intenzione, ogni qual volta egli modificava, come un grigio girasole, il suo posizionamento strategico nel cuore del sistema politico nazionale”.

Caratteristiche che concorrono nel fare del “divo Giulio” il simbolo stesso del potere italiano in età repubblicana, così come di una “postura” politica che trae dalle molteplici contraddizioni la sua forza:

“Andreotti ha avuto la capacità di essere un uomo di cerniera dentro il sistema politico, disponibile a ogni tipo di alleanza, dalla destra estrema ai comunisti nella stagione della solidarietà nazionale, pur di conservare se stesso come perno e garante di quegli accordi. Per vocazione e per scelta, si posizionò sempre all’incrocio tra i lembi delle due cesure, quella antifascista e quella anticomunista, senza appartenere mai a nessuna di esse sino in fondo. Così facendo egli è riuscito ad incarnare l’espressione di un tessuto moderato, profondo e radicato dell’abito politico e civile italiano, che ha trovato a lungo, in una parte maggioritaria della Democrazia cristiana, l’interpretazione più persuasiva ed elettoralmente seducente.

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Già ministro della Difesa nel corso degli anni ’60, con alle spalle un tentativo fallito di ascesa alla presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti coglie la sua “ora” nella primavera del 1972, segnando con il suo protagonismo istituzionale un’intera epoca:  se la sua esperienza come primo ministro inizia con un esecutivo monocolore avviato ad una conclusione prematura, per poi proseguire con un governo centrista dalla decisa apertura a destra, nella seconda metà dei Settanta viene scelto da Aldo Moro come figura di garanzia della cosiddetta “solidarietà nazionale”, che sancisce, per la prima volta dal 1947, l’ingresso del Partito comunista italiano nell’area di maggioranza (una mossa pazientemente preparata dal finissimo stratega della politica italiana in accordo con Berlinguer, e non più rinviabile dopo le elezioni politiche del 1976).

L’inizio del decennio coincide con l’apertura di una nuova stagione politica che ha per protagonista Giulio Andreotti, alfiere di un nuovo centrismo che si propone come unica soluzione democratica all’instabilità

Proprio il triennio 1976-’79, le cui vicissitudini culminano nel caso Moro, decreterà l’apice del potere andreottiano, così come dell’influenza piduista. Un gorgo di contraddizioni dove ricadono anche le conseguenze dei rapporti con il Medio-oriente ed il particolarissimo legame con la Libia di Gheddafi, le cui ombre si allungano su altri drammatici eventi di quegli anni, come Ustica e Bologna (1980).

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Soffermandosi in particolare sulla storia di quel triennio, per cui passano gli ultimi fuochi del movimento del ’77, il colpo brutale inferto dal rapimento e dall’uccisione di Moro, la lunga coda di un terrorismo che sarà definitivamente stroncato solo verso la metà del decennio successivo, l’accademico romano rintraccia in esso il vero e proprio punto di non ritorno della storia italiana, la premessa degli anni ’80 all’insegna del riflusso e del “ritorno” al privato, così come della lenta agonia del modello dei partiti di massa.

In questa prospettiva, secondo l’autore, gli anni Ottanta rappresentano una sorta di di gigantesca iniezione di morfina ad un sistema morente, che sopravvivrà fino al 1992. Tra il lungo “canto del cigno” della partitocrazia e l’affermazione di un immaginario che esalta i valori tradizionali e il mito del successo individuale (dominante negli spot pubblicitari trasmessi dalle reti berlusconiane), l’Italia viaggia ormai verso la Seconda Repubblica.

Leggere Gotor significa veramente confrontarsi con tutta la potenza della storia, la sua forza chiarificatrice, la sua irriducibile attualità.

Dopo la pubblicazione di una storia d’Italia rispetto alla quale forse soltanto l’opera di Paul Ginsborg può essere accostata per profondità dell’analisi e suggestioni interpretative, in Generazione Settanta. Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982 Miguel Gotor consegna la fotografia ai raggi X di un trauma complesso, che taglia trasversalmente la società, la politica, la cultura italiana, e che si proietta in un periodo di grandi trasformazioni ed inaudita violenza, le cui radici affondano in un contesto internazionale di “risveglio” del mondo giovanile.

Sostenuto da un rigoroso lavoro di ricerca (basti scorrere il notevole volume delle note finali, con riferimenti ad articoli, libri, interviste, sentenze, lettere…), l’accademico romano consegna un libro grandioso, una ricchissima mappa di eventi e personaggi, noti e meno noti, che hanno attraversato a vari livelli quella che Sergio Zavoli definì nel suo capolavoro d’inchiesta giornalistica “La notte della repubblica”.

Un volume che afferma, ancora una volta, l’assoluto valore del metodo storico: una conoscenza che ripone nei fatti, e nelle fonti che intorno ad essi si sono coagulati, la sua unica ragion d’essere. E tutta la sua urgenza “epistemologica”, in un’epoca in cui il dato oggettivo è costantemente sotto assedio. In questo senso, leggere Gotor significa veramente confrontarsi con tutta la potenza della storia, la sua forza chiarificatrice, la sua irriducibile attualità.