Il blues senza confini di Bombino

Il chitarrista tuareg torna all’Hiroshima Mon Amour di Torino per presentare il suo ultimo disco tra poliritmie sciamaniche e canto berbero. Reportage a cura di Oliver Crini. 

È un mite giovedì sera autunnale, al termine di una giornata assolata che – a fine ottobre – ti fa chiedere cosa ci aspetterà tra qualche anno, in termini di temperature record e altri disastri naturali. Forse non la pensa allo stesso modo la crew di Bombino, che siede attorno ai tavolini circolari nel dehors di Hiroshima Mon Amour, mentre sorseggia the alla menta incandescente, e ne dispensa anche a me e ad altri ragazzi, mentre attendiamo con pazienza fuori dal locale. La serata è gremita (ma non raggiunge il sold out) per celebrare l’artista Nigerino, che per l’occasione presenta le dieci tracce che compongono Sahel, uscito il 15 settembre scorso per la statunitense Partisan Records.

Omara Moctar, detto Bombino per i suoi lineamenti infantili – oggi solo poco scalfiti dal tempo – è un chitarrista tuareg, il popolo nomade del Sahara che ha vissuto numerose rivolte armate contro i governi nazionali, compresi quelli del Niger e del Mali. Ed è proprio in Niger che il 28 luglio di quest’anno si è consumato un colpo di stato a opera del Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria (CNSP), che ha preso il potere sull’onda della crisi politica ed economica che attanagliava da parecchio tempo il paese, a causa della presenza dei miliziani jihadisti nel Sahel e nei paesi confinanti.

L‘instabilità politica del paese che ha impedito al chitarrista ritmico di ottenere il visto per l’area Schengen, non ha fermato i tre musicisti, che si esibiscono in città dopo cinque anni di assenza.

«L’inno alla libertà di un uomo contro gli orrori della guerra. Esiste un migliore auspicio per i tempi che corrono?»

Alle dieci e mezza salgono sul palco, a sorpresa, quattro musicisti. La chitarra ritmica c’è, ma manca il ritmo: il sound della band nei primi due brani non convince del tutto. C’è poca coesione e persino Bombino sembra fuori forma, lo testimoniano le chiusure dei brani non sempre azzeccate.

Tuttavia, nel giro di qualche brano la situazione si scalda, il pubblico comincia a ballare e la band sembra galvanizzata dalle vibes in sala. Quanto alla musica, gli ingredienti ci sono tutti e sono sempre quelli: i poliritmi serrati binari e ternari, il caratteristico canto nasale in lingua Tamashek, il dialetto berbero parlato in Niger, Mali e altri stati dell’Africa nordoccidentale. E le scale pentatoniche di una chitarra elettrica che segna il punto di incontro tra Ali Farka Touré e Jimi Hendrix, quello stile rapsodico che mischia accompagnamento e solismo in un unico magistrale gesto tecnico.

Bombino ondeggia alto e ieratico nella sua tunica di un intenso blu carta da zucchero, imbracciando la sua chitarra Cort (marchio di cui è endorser, che l’ha spinto a lasciare la Stratocaster che l’ha reso famoso). Notoriamente di poche parole, affida il dialogo con il pubblico al bassista Dia Youba, che incita in francese i molti africani o afro-italiani in sala. Le due ore di concerto scorrono rapide tra i consueti accelerando che infiammano il parterre, sostenuti dal drumming solido e forse fin troppo chirurgico di Corey Wilhelm, batterista di Boston, nonché arrangiatore di tutte le tracce dell’ultimo LP.

Tra le canzoni nuove spiccano il desert-rock distorto e ipnotico di “Tazidert”, e “Aitma”, uno dei pochi pezzi apertamente politici di Bombino, che canta un inno al popolo berbero, in Mali, in Algeria, in Libia e in Niger, a unirsi in difesa di una cultura e una religione comune. Questo brano in particolare, ricorda da vicino le tematiche ricorrenti nei testi di altri autori conterranei (Tinariwen, Mdou Moctar, Imahran). La band raggiunge il climax con “Imuhar”, forse la canzone più celebre del primo disco “Nomad”, un inno alla libertà di un uomo contro gli orrori della guerra. Esiste un migliore auspicio per i tempi che corrono?