Intervista ad Andrea Passenger: “Fare il dj non è impressionare i collezionisti ma elevare il mestiere ad arte”

I dj set con la luce naturale ancora viva hanno sempre un qualcosa di speciale. Se poi sono eseguiti proprio nella fascia oraria dove cala il sole, sulla collina di San Quirico durante l’atmosfera intima e allegra che il Jazz:Re:Found sa creare ti restano particolarmente impressi. E lo sa anche chi è dietro la console a mettere i dischi. È un orario in cui devi essere bravo nei sali e scendi, mostrare versatilità nei generi e una grande padronanza del mestiere. In questo senso è stato giusto che a mettere il primo disco del festival a Cella Monte sia stata Andrea Di Maggio, meglio noto come Andrea Passenger. Astigiano trapiantato a Torino, Andrea dietro la console ha un’espressione spensierata, di chi si sta divertendo nel far divertire. Del resto Andrea prova un amore profondo per la musica, un profondo conoscitore in tutto quello che riguarda il clubbing, che gli ha portato una grande stima riconosciuta nell’ambiente.

Dopo il suo set lungo 4 ore abbiamo avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con lui, che ha confermato quanto è piacevole parlare di musica con chi l’apprezza fino al renderla Arte e lascia qualcosa a ballerini e ascoltatori.

Hai appena suonato per 4 ore di fila, aprendo le danze della quindicesima edizione del festival. Innanzitutto come stai?

“Un po’ stanco, lo ammetto, ma soddisfatto. È stato difficile. È stato il primo set del festival, dopo la morte di Alessandra Vigna, un’amica, già dal gruppo di Vercelli, che ha contribuito ad ogni edizione del festival ma soprattutto una colonna portante della ‘famiglia’ che esisteva da ben prima della nascita del festival stesso. Ho preparato un set ispirato alla musica che le piaceva, andare a sentimento e guidato dall’atmosfera del momento, un tributo speciale far sentire la sua presenza.”

Ormai sei uno di casa al JazzReFound. Come è nato questo legame con il festival?

“È nato molto tempo fa, precisamente quando credo 18 anni fa una mia amica mi propose di andare a sentire il Broken Beat a Vercelli. Sconvolto dal fatto che si suonassero quel genere a Vercelli sono andato ovviamente, e li ho conosciuto Denis e Alessandra, che più avanti mi hanno chiesto di mettere i dischi alle loro serate. Così quando è nato Jazz:Re:Found ho suonato già alla prima edizione, un live elettronico assieme a Marco xluve, e da lì ho cominciato a dare una mano. Denis mi riserva sempre un posto, anche importante. Sono sempre grato e legato a questo festival”

Quando hai pensato che potevi fare della musica la tua vita?

“Sono sempre stato attratto dalla musica. Da piccolo avevo il quadernetto dove segnavo i pezzi che sentivo in radio, oltre a essere fissato con le cassette. Ascoltavo B-side e lo registravo, avrò 150 cassette di quel programma. Così mi sono appassionato al suono elettronico, quello di Detroit in particolare e ho conosciuto Mad Mike. Pezzo dopo pezzo è diventata la mia vita. Da lì è cominciata la ricerca dei dischi. Ho 6-7mila vinili, non una grandissima collezione ma il legame con il PVC c’è, pur non essendo un purista. Ma mi diverte di più, cerco un suono ricercato e trovare i dischi è più difficile così. Magari inseguo un vinile per 4/5 anni prima di trovare la copia. È un legame diverso da scaricare la traccia che ti piace e suonarlo 45 secondi dopo averla presa su Bandcamp. Compro molto digitale, ma il legame con il disco è più profondo. Sono pezzi di vita, ricordo dove li ho comprati, se me li hanno regalati, o l’emozione che mi regala la pista quando li suono.

«Non è automatico però che se suoni solo in vinile sei più bravo»

Suonare o possedere un determinato vinile crea un legame più intimo con la musica che suoni?

“Vero, ma non dovrebbe diventare una religione. O meglio uno showing off, ovvero far vedere che hai solo dischi rari. Ho avuto una fase così, essendo interessato a suoni particolari, ma ad un certo punto ho capito che la cosa più importante è la musica non il possesso di quel 33 giri in particolare. Devi trasmettere qualcosa alle persone e sentirti bene con la musica che metti. Che il disco sia raro o no impressiona solo i collezionisti, e non è lo scopo di suonare musica.

Oggi che la musica è facilmente reperibile ho l’impressione che qualcuno usi il vinile più per mostrare un trofeo, come le corna appese al muro di casa, e ne faccia una cosa più di vanto che di collezionismo, screditando chi non suona in analogico. Cosa pensi di questo dualismo nell’arte del dj?

Vero. Va detto che l’accesso al vinile implica uno sforzo, di soldi, tempo e pratica. Non è automatico però che se suoni solo in vinile sei più bravo. Di sicuro hai una sensibilità diversa nella ricerca e nella tecnica di mixaggio, più accurata appunto per le energie che metti. C’è un gate keeping che può essere positivo o negativo. Sul digitale il gate keeping manca quindi molte più persone suonano digitale, ma in effetti trovare persone che lo suonano veramente bene, più ispirate diciamo, è più complicato. È la stessa ratio tra le release. Se escono 10 release a settimana in vinile ce ne sono una o 2 buone, se escono 100 release in digitale, è difficile che 10/20 siano di alto livello. Quindi non è giusto o più figo usare solo i vinili, la vedo come una percentuale e essere puristi lo vedo un po’ come essere fini a se stessi. Sicuramente trovi più facilmente chi suona bene in vinile, ma se penso già a molti ragazzi giovani all’Imbarchino che usano il digitale sono molto bravi e la loro passione è tangibile. Si va al di là del mezzo, che resta appunto un oggetto, non il fine. Avere i dischi per avere i dischi non ha senso, ha senso utilizzarli per qualcosa di bello.

Tu hai un etichetta, Light Touches Records. Ce ne parli?

“Light Touches più che una piccola etichetta è la mia valvola di sfogo per i dj set. Una serie di edit che ho provato a suonare. e si sono dimostrate interessanti. Così ho iniziato a stamparle, 300/400 copie che sono andate incredibilmente benissimo. Mi fa effetto vedere che la prima release stia a 80 euro su Discogs, ma alla fine è un’etichetta nata non per guadagnare, ma per divertirmi con quei brani e far divertire in pista”

Cosa pensi di come si è evoluta la figura del dj nell’ultimo ventennio?

“Guarda il mio amico Marco xluve dice sempre che il dj è il cameriere della musica. Storicamente è un intrattenitore che è in grado di elevare il mestiere ad arte, se è bravo a fare il lavoro sporco. Quell’arte si è elevata al punto da creare delle superstar. Ci sono dei dj che sono dei maestri di cerimonia e sono in grado di trascendere, ispirare e tutti gli altri possibili verbi belli che non mi vengono in mente. Penso a Theo Parrish o Nicky Siano. C’è da dire che a volte diventa una pagliacciata, come i set pre-registrati. Non c’è un giudizio, semplicemente la considero una cosa a cui non sono interessato. In questo caso sono abbastanza radicale, per me il dj è il maestro di cerimonia del dancefloor e del clubbing, in grado di comunicare e lasciare qualcosa alle persone con la musica. Quando diventa puro spettacolo non mi interessa. Alla fine bisogna andare con il flow, la figura professionale si è evoluta e bisogna accettarla. Però alla fine a me dello “sport “dietro la consolle interessa sempre e solo chi è in grado di elevare l’arte e fa costante ricerca”

Tu sei molto versatile e acculturato in materia musicale. Hai dato tanta importanza alla ricerca?

“La ricerca non è fine a se stessa, ma è una passione che viene arricchita. Qualcosa che senti dentro. Mi è sempre interessato ascoltare nuovi dischi e capire cosa  cosa c’era prima. Quella non è ricerca, ma piacere personale innato. Portare questo in un set e sentirsi i complimenti è sempre gratificante. Vuol dire comunicare in maniera non verbale, che è fighissimo e un grande onore. Perché quello che facciamo ha un legame con le origini del clubbing, con New York, con una storia di persone che hanno sofferto. Una legacy che mi arricchisce, anche da bianco pseudo-privilegiato. Perchè il clubbing è una liberazione dello spirito e del corpo. Purtroppo oggi tutto rema contro, e renderlo liberatorio al 100% è sempre difficile”

Visto che sei astigiano trapiantato a Torino volevo chiederti cosa pensi della scena clubbing e musicale torinese. Secondo te è cambiata? Qual è la tua percezione?

“Ho una visione molto personale di cosa è Torino perché sono sempre stato un “cane sciolto” sia da operatore che da fruitore. Torino è una città con un forte passato industriale, che ha abbracciato il punk e la new wave negli anni ’80. Da lì è sempre stata molto elettronica per un file rouge che arriva da quell’epoca lì e anche oggi la scena è molto interessante. Ho vissuto l’epoca dei Murazzi che sono stati una fucina importante sparita all’improvviso. Lì è stata tenuta viva l’anima sperimentale della città, anche se gli spazi per i generi che amo si sono man mano ridotti. Negli ultimi 10-15 è sempre stato difficile far vivere quel tipo di atmosfera legata alla clubbing ‘originario’ e alla Black Music.
Oggi però posti come Imbarchino sono riusciti ad attirare un sacco di appassionati interessanti e trasversali. La potenza espressiva di torino è quindi sempre ancora sotto traccia, e non parliamo di generi specifici, ma in città c’è tanta voglia di sperimentare e di collaborare in generale, che è una cosa bellissima visto che l’abitudine in città è che ognuno faccia il proprio. Quello mi ha stupito, in pandemia in particolare, persone che si conoscono, comunicano e si appoggiano tra di loro. È una cosa potentissima che porterà dei frutti. Quindi viva Torino che nonostante sia underground e spesso ‘chiusa’ ha sempre dei tizzoni ardenti che ardono, lì sotto.”

Grazie Andrea delle chiacchierata. Ti va di salutarci consigliandoci un disco?

I love your girlfriend di Omar S è un singolo meraviglioso. E poi spezzo una lancia per un album dell’anno scorso, Textures di Hagan. Non centra con quello che metto, ma è molto figo. Sta un po’ a metà strada tra broken, robe ama piano rivisitate, bass UK, con un piglio neo soul. Consiglio a tutti di ascoltarlo.

«Il clubbing è una liberazione dello spirito e del corpo. Purtroppo oggi tutto rema contro e renderlo liberatorio al 100% è sempre difficile»