“Ogni estate ha la sua storia e per avere delle storie da raccontare bisogna che le cose continuino a succedere. È questione di visioni: facciamo ciò che ci appare!” – Gianluca Gozzi, direttore artistico di TOdays Festival. È l’appuntamento estivo per eccellenza del fine estate torinese, una storia che resiste e dura ormai da nove anni e si conferma avvincente e sincera, tra scelte rodate e proposte coraggiose. Articolo a cura di Edoardo D’Amato.
Nell’estate in cui si è parlato molto di un possibile (e non ancora confermato) prossimo arrivo del Primavera Sound a Torino, la solida certezza resta TOdays Festival. Dal 2015, anno d’esordio, sono passati da Via Cigna tantissimi artisti (per la maggior parte internazionali) che hanno contribuito a rendere questo evento un classico imprescindibile per gli amanti del rock e delle sue diverse sfaccettature. La formula dell’evento è sempre la stessa, pur con qualche rinnovamento: i live e i set all’ex Fabbrica Incet quest’anno non ci sono stati, così come quelli al Parco Aurelio Peccei, preferendo concentrarsi di più sui concerti a sPAZIO 211 e sugli appuntamenti diurni al Mercato Centrale e all’Auditorium del Cecchi Point.
Ciò che non cambia mai è l’attitudine, anzi, l’anima di TOdays: è un evento-ritrovo, una festa in cui quest’anno si sono incontrate e salutate diecimila persone in tre giorni. Numeri che danno l’idea delle dimensioni volutamente contenute di una proposta che fin dalle sue origini ha sempre puntato più sulla qualità che sulla quantità. Con scelte a volte anche rischiose, ma che alla fine hanno sempre ripagato. Aver portato per la prima volta in Italia lo show di Christine and the Queens, che domenica sera ha calato il sipario sulla nona edizione, è solo un esempio. Ci arriveremo.
Anche l’apertura del Festival è stata altrettanto coraggiosa: venerdì, sotto un sole ancora cocente (a Torino si è passati in 48 ore da temperature intorno ai 40°C ad autunno pieno), sul palco di sPAZIO sono saliti i King Hannah. Incensati dalla critica per il loro disco d’esordio “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me”, il duo di Liverpool ha confermato quanto di interessante si dice sul loro conto. Un rock noir, grezzo, impreziosito dalla voce ammaliante di Hannah Merrick. Senza scomodare per il momento mostre sacre del calibro di Hope Sandoval o addirittura PJ Harvey, Hannah dimostra grandissimo talento. E tutta la band ha ampi margini di miglioramento. Da segnalare la cover di State Trooper di Bruce Springsteen (il Boss avrebbe apprezzato) e la bellissima “It’s Me And You, Kid” finale. Sicuramente da risentire in un club.
Di tutt’altro mood è stato il concerto/show di Tim Harrington e dei suoi Les Savy Fav. In ordine sparso, tra gli highlights segnaliamo: la barba arancione di Tim, i suoi outfit improbabili, gli urletti e il cavo del microfono lungo 100 metri per permettergli le sue scorribande tra il pubblico. Ad un certo punto ha iniziato anche a prodigarsi nello spiegare che il pipistrello è mezzo uccello e mezzo topo. Quest’uomo ha anche pubblicato un libro per bambini. Satiro intrattenitore o poco più che una macchietta? Il confine è labile. Nel bene e nel male, qualcosa da ricordare.
A differenza dei Warhaus. Già ascoltando “Ha Ha Hearthbreak”, ultima uscita della band, si può percepire la mancanza di quel guizzo in più che lo avrebbe reso una chicca pop. Sensazione confermata anche live, dove non è bastata la notevolissima voce a là Serge Gainsbourg di Maarten Devoldere e la perfezione dei suoi compagni sul palco. Al netto di un groove a tratti sensuale, risulta tutto abbastanza piatto e molto lounge.
Tra un cambio palco e l’altro c’è il tempo per godersi l’atmosfera che si respira al TOdays. Il contesto è un pelo più rilassato rispetto agli scorsi anni (nel 2018 le presenze furono 30mila), senza le ansie logistiche presenti in altre realtà più grandi. La proposta mangereccia è buona ma si potrebbe fare meglio (le alternative all’ottimo Rock Burger ci sono ma andrebbero curate di più), mentre la presenza di un punto SMAT dove bere liberamente è tanta roba. Invece, la mancanza dei vituperati token fa alzare tutti in piedi per i 92 minuti di applausi canonici, ma quest’estate abbiamo vissuto situazioni dove vengono gestiti bene e senza polemiche.
Chiudono il Day 1 gli Wilco. Difficile aggiungere qualcosa a quanto è già stato scritto e detto rispetto ad una band storica, che continua a raccontare sui palchi di tutto il mondo sessant’anni di rock ‘n’ roll e musica americana. Hanno fatto Spiders (Kidsmoke), Misunderstood, A Shot In The Arm, Jesus, Etc. con un’intensità da birividi. E ogni volta che Jeff Tweedy imbracciava una delle sue tante chitarre era come se stesse dando un abbraccio anche a noi sotto palco. Tra l’altro quella sera festeggiava anche il suo compleanno. Memorabili.
Tall buildings shake
Voices escape singing sad sad songs
Tuned to chords strung down your cheeks
Bitter melodies turning your orbit aroundWilco, “Jesus, Etc.”
E, a proposito di sicurezze, la strana accoppiata del sabato sera Sleaford Mods–Verdena ha funzionato alla grande. Certo, non è passata inosservata la decisione di far iniziare mezzora prima (si, avete capito bene: non dopo, prima) i concerti di entrambi. Soluzione per evitare la pioggia (che poi in effetti non c’è stata), ma quantomeno discutibile: alcuni si sono lamentati di essersi persi buona parte delle due esibizioni (c’è chi era in coda per mangiare e chi ancora non era proprio entrato). Comunque, tutti a nanna alle 23.15.
Il duo di Nottingham, nonostante i volumi bassi di buona parte della performance, ha ribadito come la loro formula sia quella vincente: basi elettro-punk-grime con sopra uno spoken word incarognito. Con una leggera variazione sul tema: Andrew Fearn non ciondola più con la birra tra le gambe, ma balla come un forsennato. Potentissimi, anche se continuiamo a pensare che il vestito migliore per loro è quello del club. La band di Alberto Ferrari non ha invece avuto problemi di volumi bassi, anzi: è parso che fossero aumentati non poco. Ed è stato un viaggio di vent’anni di discografia di altissimo livello. Tra le canzoni più amate, il trio bergamasco ha suonato per la gioia dei fan “Luna”, “Il Gulliver”, “Angie” e “Don Calisto”. E non sono mancati i momenti più recenti, quelli di “Volevo Magia”. Una band schiacciasassi, con un suono super riconoscibile.
Così come lo è quello di Anna Calvi: un rock barocco sorretto da una voce quasi lirica. Il tutto con una presenza scenica da autentica regina. Quello che manca in questo caso, banalmente, sono i pezzi. Al netto di qualche inno trascinante come “Suzanne And I”, ” Don’t Beat the Girl Out Of My Boy” e la cover niente male di “Ghost Rider” dei Suicide”, si fatica a pensare qualcosa scritto da Anna Calvi in termini di “capolavoro”. Più di un dubbio lasciano invece i Gilla Band, forti di un disco uscito lo scorso anno che ha avuto un buon impatto, ma provati da anni difficili, soprattutto per via dei problemi personali del cantante Dara Kiely. La sensazione è che non riescano a distinguersi davvero rispetto ai tanti gruppi nati in questi anni di matrice post-punk-noise. Viene comunque voglia di rivederli in un altro contesto.
Due momenti “off” da incorniciare: la celebrazione degli Uzeda al Mercato Centrale e il live per “bambini” di Enrico Gabrielli al Cecchi Point
Le giornate di TOdays iniziavano già nel primo pomeriggio. In tutti e tre i giorni del Festival, al Mercato Centrale di Porta Palazzo si è tenuto TO_lab, ovvero una serie di incontri e talk in compagnia di artisti, giornalisti e addetti ai lavori. Illuminante l’esperienza d’ascolto “Insipired By The King. Extra Tracks”: a 60 anni dal celebre discorso “del sogno”, il musicteller Federico Sacchi ha raccontato la storia delle canzoni più “outsiders” ispirate alla figura di Martin Luther King.
E poi l’incontro tra Hamilton Santhià, gli Uzeda/Bellini e Maria Arena, regista del film “Do it yourself” di prossima uscita, che tratteggia la storia di una band culto, un unicum nel nostro Paese. Agostino Tilotta e Giovanna Cacciola ci hanno regalato anche un piccolo live acustico da brividi. Per il resto però, gli incontri sono parsi molto autoreferenziali, per di più inseriti in una location, il secondo piano del Mercato Centrale, poco adatta: il brusio continuo del via vai di sotto spesso non consentiva di seguire bene.
Un momento da incorniciare è stato invece quello di domenica pomeriggio all’Auditorium del Cecchi Point, dove Enrico Gabrielli ha suonato “Le canzonine“, un progetto nato nel periodo pandemico e che poi ha visto la luce quest’anno. Un disco di musica per bambini, in prima fila durante il concerto: non hanno staccato un attimo di dosso lo sguardo da Gabrielli, che ha fatto un’ulteriore magia, ovvero quello di far tornare piccini gli adulti, cantando insieme ai suoi tanti ospiti (tra questi Giovanni Truppi, Alessandro Fiori e Roberto Dell’Era) di pappagatti, mani ragnette e singhiozzi impertinenti. Tutto bellissimo, compresa la cover di “La casa” di Sergio Endrigo.
I Porridge Radio sono la sorpresa di quest’edizione: aprono l’ultima giornata in programma a sPAZIO 211 con una attitude molto più incisiva di quello che ci si potesse aspettare. Merito senza dubbio anche della voce e del piglio di Dana Margolin, che si produce anche in una sortita tra i k-way del pubblico. Nonostante non godessero dell’ingiustificato hype con cui sono saliti sul palco i Black Country, New Road lo scorso anno, i Porridge Radio ci sono piaciuti di più.
Un po’ fuori posto invece gli Ibibio Sound Machine, troppo Jazz Festival oriented. Al netto di qualche virata elettronica sporadica, che a onor del vero su disco si sente di più. In alcuni momenti, come ad esempio in “Protection From Evil” sembra infatti di sentire un Moroder afro. E sono quelli più particolari. Ma durano poco, perchè poi si ritorna ad una afro-beat tutto sommato convenzionale.
Semplicemente incredibile invece L’Impératrice, che ha illuminato il cielo di Via Cigna con i suoi cuori luminosi che pulsavano all’unisono con quelli di tutto il pubblico. Un concerto perfetto, che per groove e intensità ha ricordato questo live incredibile di Todd Terje all’Oya Festival di una decina di anni fa. C’è tutta la scuola french touch che ha avuto negli Air e nei Daft Punk i massimi picchi, ma c’è anche il city pop giapponese degli anni ’70 e il future funk più recente. Un cocktail di suoni ideale per ballare sotto la pioggia.
Torniamo all’inizio del nostro racconto con l’atto conclusivo di TOdays Festival, che poi è un’altra storia che vale la pena di raccontare, ovvero quella di Christine and the Queens. La sua è stata una performance straordinaria, un po’ Madonna un po’ Anohni, che ha lasciato a bocca aperta tutti i presenti. Non era semplice catturare nuovamente l’attenzione del pubblico, dopo la sbornia groovosa de L’Imperatrice e la pioggia che batteva da ore. Ma Chris ci è riuscito, con uno show dove la musica è diventata la colonna sonora di una pièce teatrale, di una declamazione poetica, di una danza disperata tra le statue disseminate sul palco. La sua voce melò e la sua rosa, lanciata verso il pubblico al grido di “Open Your Hearth” mentre pioggia e raggi laser creavano involontariamente una coltre di pailettes, resteranno per sempre nel cuore dei presenti. Chi c’era, sa.
Voglio diventare un grande produttore, un grande poeta, un performer folle, ma senza farmi troppo male, mi sono già rotto una gamba.
Estratto di un’intervista di Chris a Rolling Stone
E chi c’era e chi c’è stato gli anni scorsi sa anche che la fine dell’estate senza TOdays non sarebbe più la stessa cosa. Sarà la malinconia settembrina, sarà la pioggia, sarà che per tre giorni abbiamo cambiato residenza in Via Cigna 211 assistendo a storie uniche, ma che fatica riprendersi. Speriamo di continuare a scrivere (di) questa storia durante tutto l’anno, fino alla prossima edizione.
Le immagini presenti nell’articolo sono state tutte realizzate, a parte quella in copertina, da Nat Cole