Il rituale e la masterclass dei Melvins

Quando le zanzare fanno l’amore con il fuzz: i Melvins a Torino festeggiano 40 anni di onorata e rumorosa carriera nel giardino di sPAZIO211 in un marasma di corpi sudati e saturazione di medio-basse. In apertura sempre un piacere farsi scorticare l’anima dagli ottimi Treehorn da Cuneo. Report a cura di Giacomo Scarcella. 

Nonostante il sole si nasconda dietro alle nuvole, questa dell’11 luglio è una serata molto calda: si cominciano fin subito a vedere le prime magliette appese alla cintura e si concedono più centimetri di pelle sudata alle zanzare che, tra l’afa e la birra, trovano sottopalco una vera e propria cornucopia sanguigna. I Treehorn, ai quali è affidata l’apertura, sono già ben noti per l’impatto delle loro esibizioni e non si smentiscono certo in questa occasione, arrivando con la forza di un treno merci tra stoner, noise e un retrogusto di Tool.

“Se ora cadesse una bomba a sPAZIO211, praticamente Torino smetterebbe di avere musicisti”, le parole del collega chitarrista che ho beccato dopo aver varcato i cancelli mi rimbalzano nella testa, ed effettivamente i volti familiari dell’underground sabaudo sono tanti in mezzo alla folla di teste molleggianti sotto al sound massiccio del trio cuneese.

Durante il cambio palco, chi fino ad adesso è stato in coda per il bar o seduto a godersi gli opener in comodità, si accalca e, quando il cespuglio riccio di King Buzzo fa capolino dalla tenda nera, il clamore è tutt’altro che timido. Dall’impianto parte il giro di drum machine più anni ’80 della storia degli anni ’80, e sulle note degli A-ha i Melvins calcano i palco, accolti a suon di applausi e  “taaaaaaake oooooon meeeeeeee” cantati a squarciagola; a stroncare bruscamente la new wave ci pensa Steve McDonald, che dà il via alle distorte danze con il riff di basso di Snake Appeal.

New wave sucks!”, ghigna Mcdonald. E l’inizio del concerto stordisce, sia per la forza del sound, saturo e gonfio (ci sono un po’ di pasticci nel mixaggio della voce, ma la situazione migliora dopo i primi brani), ma soprattutto perché, nonostante la semplicità delle luci e dell’allestimento del palco, l’impatto estetico è quello di una visione, della manifestazione spiritica scaturita da un rituale: Buzz Osborne, con tunica nera e ricci smossi dal ventilatore, domina la scena come uno sciamano del fuzz, mentre al suo fianco il sinuoso Steve, in total red con il basso, concede più interazioni al pubblico tra ammiccamenti e incitazioni; dietro alle pelli gli occhi truccati di Dale Crover sembrano scrutarti dentro l’anima, in qualunque posizione del pubblico tu ti stia trovando.

Il tour è per celebrare i 40 anni di carriera e, a mano a mano che il cielo si scurisce, la scaletta prosegue abbracciando la vasta discografia della band: dalle vecchie glorie come Zodiac, Copache, Blood Witch, alle più recenti Hammering e Never Say You’re Sorry, con in mezzo una cover pompata a steroidi di I Want To Hold Your Hand. Il pubblico apprezza di buon gusto e si rimescola continuamente nel ribollir di corpi sudati e di polvere sollevata dal pogo, che si intensifica particolarmente con il devastante poker finale composto da A History of Bad Man, Honey Bucket, Revolve e Night Goat.

Luci basse, l’encore è richiesto a gran voce. Crover per la prima volta lascia la batteria per farsi avanti a incitare il clamore del pubblico ed ecco che, come un macigno dal cielo, la chitarra di Buzzo scandisce l’introduzione di Boris, atto conclusivo di quello che, più che un concerto, si potrebbe tranquillamente considerare una masterclass sul fuzz e sulle testate sature. Finito il concerto, lo sPAZIO211 si svuota: le orecchie fischiano, le punture prudono, le gole sono piene di terra, ma le bocche sono tutte sorridenti.