Una riflessione a freddo dopo il concerto degli I-Days che ha radunato 65 mila fan in estasi all’Ippodromo di Milano. Forse al cospetto della rock band più importante e trasversale della sua generazione (e non solo). A cura di Giuseppe Guidotti.
Non capita spesso di ascoltare un disco per la prima volta e avere la percezione chiara che quel lavoro cambierà per sempre la tua vita e, verosimilmente, un pezzo di storia della musica. Mi correggo: non capita spesso di essere presenti nel momento in cui questo accade.
Cioè, per intenderci: la prima volta che ho ascoltato “Revolver” per me è stato uno shock. Ho pensato: cazzo! Però, ecco, avevo ben presente chi fossero i Beatles. Mi sono sempre domandato come fosse ascoltarlo per la prima volta, quando è uscito. Nel suo periodo storico. Chissà che sensazioni avrei provato nell’ascoltare “Dalla” nel 1980 e così via.
Questa cosa credo di averla vissuta un paio di volte nella mia vita, non di più. Sicuramente ho ascoltato grandi dischi della storia recente, ma non sempre con questa consapevolezza. Non so, ad esempio sui Radiohead sono arrivato un po’ in ritardo per una questione anagrafica. Mi ricordo certamente la prima volta che ho ascoltato “In Rainbows” ed è uno di quei momenti. Potrei aggiungere “Back to Black” e “Random Access Memories”. Forse poco di più.
Ho però un ricordo limpido e cristallino del primo ascolto di ogni disco degli Arctic Monkeys. Mi ricordo come fosse oggi la mattina in cui, bigiando l’università, sul divano di casa dei miei annoiato e assonnato per tivù passò il video di “When the Sun Goes Down”. Ci vollero pochi secondi. Giusto il tempo di arrivare al punto in cui si interrompe la voce e parte una cassa in quattro malconcia. Sobbalzai dal divano.
Pochi minuti dopo ero su eMule a cercare il disco. Qualche ora dopo ero completamente rapito. Mandavo messaggi a chiunque dicendo di ascoltare quell’album, che era qualcosa di sorprendente, di mai ascoltato. Me la ricordo quella sensazione di eccitazione e stupore. Come ad aver scoperto il Santo Graal.
Sono felice di aver vissuto i miei vent’anni durante l’esplosione dell’indie rock, come ci piaceva chiamarlo. Ai tempi di MySpace, per intenderci. E so che suona malinconico e che forse chiunque potrebbe dire così dei propri vent’anni, ma quel periodo della mia vita, per quanto terribile, è stato bellissimo. Parlo di me ed è una cosa che odio in chi parla di musica, o in chi scrive in generale. Ma non è il mio ego qui a mettersi in mostra. Parlo di me perché ritengo che la vera forza di ciò che voglio raccontare stia proprio in questo: nell’intimità con la quale ho vissuto, abbiamo vissuto quel fenomeno chiamato Arctic Monkeys.
Mentre scrivo sono passate un paio di notti bollenti, di una delle estati più fredde dei prossimi vent’anni, dal concerto a Milano della band di Alex Turner. Mi ci sono volute un po’ di sere per capire. Per metabolizzare. Ma più passano i giorni, più ho un déjà-vu. Quella sensazione di aver partecipato a un rito collettivo che va ben oltre la presenza a un concerto. In passato mi è successo solo una volta. Era il 12 luglio 2007, il famoso concerto dei Daft Punk a Torino. Quella storia non è replicabile, ma quella sensazione riaffiora in me in questi giorni attraverso i messaggi, i post sui social e quella percezione collettiva e condivisa con gli amici di Roma (che insieme a Milano ha collezionato oltre centomila spettatori), di aver vissuto qualcosa di epico.
Ma perché?
Come detto, erano i tempi dell’università. A Torino nasceva il Traffic Festival, per l’appunto. Le serate “Xanax” portavano la musica inglese e americana nei dj set sotto la Mole, come poi accaduto in altre serate in tutta Italia. Una musica che mescolava dance, sintetizzatori da discount e chitarre suonate all’altezza del mento in ritmi frenetici, alternati, in levare.
L’indie rock voleva dire un sacco di cose, ma ha definito uno stile. Uno dei miei migliori amici l’ho conosciuto così: in un parcheggio il sabato mattina aspettando di entrare a lavoro. Skinny jeans, scarpe a punta, maglietta a righe. Era chiaro: ascoltava la mia stessa musica, suonava in una band, cantavano in inglese e così via. Coi miei compagni di università aspettavamo su YouTube l’uscita dei nuovi video e li commentavamo. “Teddy Picker”, “Fluorescent Adolescent”. Ogni volta una festa. Ogni volta un evento.
Ma il punto del mio discorso è un altro, ovvero quello da cui sono partito. Non so se mi sono davvero accorto, qualche anno dopo, quando uscì “AM”, cosa è successo veramente. Io me lo ricordo il primo momento in cui l’ho ascoltato. Mi ricordo di avergli dato 10 per la webzine musicale in cui scrivevo all’epoca. Mi ricordo di aver distintamente percepito la perfezione di quel disco così spiazzante eppure così riuscito.
Ma che io, quel giorno, ascoltai per la prima volta un disco epocale, me ne sono accorto davvero solo sabato scorso. Mi era chiaro di aver ascoltato un album bellissimo, ma non avevo capito che non sarebbe stato solo il classico disco indie rock di “una delle band più famose del panorama”. “Do I Wanna Know” conta un miliardo e mezzo di views su YouTube. Un miliardo e mezzo è un buon numero, soprattutto se il video in questione è praticamente inutile. Poco più che una cover animata. Se fai un miliardo e mezzo vuol dire che la canzone è davvero bella. Soprattutto se non sei Baby Shark o Despacito. Forse lo sapevo, ma non l’avevo mai davvero valutato.
Sabato mi sono trovato in mezzo a 65.000 mila persone. Uno stadio. E ho capito l’importanza di quel disco. La perfetta sintesi di pop, indie rock, rap, soul. Un album moderno e strepitoso. Del perché, però, quello di sabato sia stato più che un concerto, del perché io stia parlando molto di me, non ho ancora dato spiegazione.
Tutte le canzoni parlano di noi, in un modo o nell’altro. Sono riuscito e ritrovarmi anche nei peggio brani da Radio Latte e Miele nei momenti più bassi delle mie relazioni sentimentali, ok. Ma nessuno come Alex Turner è riuscito a parlare e descrivere la mia generazione. Ha imbracciato la chitarra e meno di due anni dopo era già, neanche maggiorenne, in testa alle classifiche inglesi, polverizzando record di mostri sacri come gli Oasis. Un predestinato, forse. Alex Turner è prima di ogni altra cosa il miglior paroliere moderno. Ha una capacità lirica senza pari, tant’è vero che è in grado di descrivere una intera generazione. Lo fa nei dettagli, lo fa nei modi di dire, lo fa alternando poesia a cruda realtà. Evolvendosi nel tempo, ma lasciando intatto un talento raro. Senza dimenticare lo studio, il lavoro.
Oggi Alex Turner non è solo un paroliere o un ragazzino che si è montato la testa pensandosi un crooner. Ha un registro vocale capace di svariare, senza isterismi, ma soprattutto senza sbavature. Suona la chitarra, il piano. È un artista poliedrico, completo, con il carisma che solo pochi frontman nella storia hanno avuto.
Ma dove eravamo rimasti? Ah sì, “AM”. L’apice. Il culmine. L’acme di una carriera che poteva bruciarsi velocemente come tante altre band e che invece ha toccato il cielo. Poi cosa succede? Succede che una sera torna a casa, non te lo aspetti, va tutto bene e ti dice: io però voglio qualcosa di più, non mi sta più bene questa vita, voglio una famiglia, voglio fare le cose sul serio.
E tu sai solo rispondere che non sai, che ti diverti ad andare a ballare insieme, che alla fine state da dio così leggeri, che è tutto così bello, che non vedi il motivo di complicare tutto. Ti caghi addosso e forse qualcosa si rompe, qualcosa finisce. “Tranquility Base Hotel & Casino” è un po’ questo. Non proprio un fulmine a ciel sereno, ma qualcosa per la quale non pensavi di essere pronto. E dopo è tutto un casino. Ti senti un po’ sperduto, ma provi ad andare avanti, pensando semplicemente che le cose cambiano, a volte finiscono ed è normale sia così.
Ci metti un po’ ma alla fine capisci che tanto a ballare ci andavate sì e no una volta ogni 6 mesi. Che gli amici festaioli ormai sono tutti accasati. Che il lavoro ti spompa e il venerdì sera, tornato a casa, hai solo voglia di sentirti, per l’appunto, a casa. Così, dopo un po’ di tempo, vi ritrovate. Entrambi cambiati, entrambi maturati. Ognuno un passo più vicino, con meno ostilità, a dirsi che forse si può continuare a divertirsi lo stesso, che forse ciò che conta è volersi bene. Non importa come.
E allora The Car è questo. Forse prima abbiamo esagerato ma ora sì, è di nuovo tutto perfetto. Diverso, certo. Più incasinato, perché no? Ma davvero tutto perfetto. Ogni cosa al suo posto. Così sabato abbiamo fatto la pace, facendo l’amore in 65.000 tutti insieme. Tutti a nudo con l’intimità di chi si è fatto leggere e scavare da una band che non è una semplice band. Da un frontman che non è un semplice frontman. Sono gli Arctic Monkeys, signori. La band della nostra generazione.