Eve Arnold, il ‘900 in uno sguardo

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In oltre trent’anni di carriera professionale, Eve Arnold sperimenta a fondo quasi tutti i generi della fotografia, dal servizio pubblicitario al ritratto d’autore, dallo shooting di moda al reportage sociale, con un occhio sempre, instancabilmente “attaccato” al suo tempo. La mostra personale allestita al CAMERA di Torino ha riassunto in 170 scatti e materiali vari il   percorso di una grande protagonista della fotografia del Novecento, prima donna (insieme a Inge Morath) a diventare membro effettivo della “mitica” agenzia Magnum.

_di Alberto Vigolungo

Gli estremi entro i quali oscilla l’opera di Eve Arnold sono fissati in una bellissima frase di Robert Capa, tra i primi ad accorgersi del suo talento, tanto da volerla nella “sua” Magnum Photos: “Metaforicamente parlando, il suo lavoro cade a metà fra le gambe di Marlene Dietrich e la vita amara dei lavoratori migranti nei campi di patate”.

Curiosissima esploratrice del mondo e delle possibilità espressive del medium fotografico, Eve si accosta ai suoi soggetti con acume e sensibilità, riuscendo a trasformare momenti pubblici e privati in veri e propri racconti collettivi, testimonianze trepidanti di un’epoca.

La scoperta della propria vocazione non è però immediata: nata a Philadelphia nel 1912 da una famiglia di immigrati ebrei ucraini scampati alle persecuzioni del regime zarista, è soltanto a New York, dove si trasferisce negli anni ’40, che si avvicina a quella che diventerà la sua professione: qui, inizia a lavorare negli stabilimenti del gruppo Stanbi, occupandosi di sviluppo di fotografie da rullini e negativi.

“La città che non dorme mai” costituisce per lei una vera e propria scuola dello sguardo e la spinge a scattare immagini che documentano la pervasività della cultura di massa nel paesaggio metropolitano, ma anche le sue stranezze “sotterranee”, come si osserva negli spettacoli che offrono innocenti promesse di evasione dal conformismo dominante di quegli anni, quando l’impero americano si appresta a vivere la sua “età dell’oro”.

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Times Square, New York City, 1950

Dalla Rolleicord ricevuta in dono nel 1946 a questi primi scatti il passo è tutt’altro che breve. Nel mezzo ci sono un matrimonio e un figlio, per il quale Eve decide di abbandonare il lavoro. Ed è in questo preciso momento, all’età di 37 anni, che la donna incontra la sua personale epifania: il corso di fotografia di Alexey Brodovitch,  allora direttore artistico di “Harper’s Bazaar”, è la svolta che la spinge sulla strada della professione. Il suo talento non tarda a rivelarsi, proiettandola, nel giro di pochi anni, tra le più importanti fotografe dell’epoca.

Del 1950 è il primo servizio, su una sfilata di moda della comunità afroamericana di Harlem, che verrà acquistato e pubblicato da una rivista inglese. In questo lavoro si ritrovano già due temi portanti della sua ricerca: l’interesse per il costume (in particolare per la moda, da dove proviene il suo stesso “mentore”) e l’attenzione per il “diverso” e le sue espressioni, in una società ancora fortemente connotata dal punto di vista razziale.

Se, nell’arco di una lunga carriera, la fotografa nata a Philadelphia si confronta con molti generi differenti, il suo lavoro comincia dalla trattazione di un tema preciso: la condizione delle classi più povere, in un Paese che, uscito vincitore dal Secondo conflitto mondiale, si proclama quale guida indiscussa del mondo occidentale.

In questo senso, ancor prima di occuparsi dell’immaginario della cultura di massa per motivi di ricerca personale o di professione, Arnold muove innanzitutto dal sociale, documentando la vita degli emarginati: in questa prima fase, uno spazio significativo riguarda un servizio realizzato ad Ellis Island, che descrive la condizione di miseria e sfruttamento cui sono costrette intere famiglie di braccianti neri, al lavoro nei campi di una potente famiglia di proprietari terrieri, dove la donna vive per qualche tempo con il marito.

A pochi chilometri dalle luci della “Grande Mela” ritrova così un mondo agricolo governato da dinamiche non così lontane da quelle del Profondo Sud: di fronte a questa realtà, tanto ignorata quanto crudele, la fotografa non ci pensa su due volte e realizza un reportage di rara umanità e potenza, che intreccia quadretti di vita quotidiana tra baracche e piccoli bar desolati, con un’attenzione particolare ai bambini. In uno di questi, forse il più esemplare, il contrasto cromatico tra figura e ambiente diventa metafora spietata delle contraddizioni del Sogno americano.

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Migrant potato picker, Long Island, New York, 1951.

L’interesse per la questione razziale è coltivato parallelamente a quello per la condizione delle donne. Nello stesso periodo realizza servizi che raccontano le grandi trasformazioni sociali dell’America del dopoguerra: uno di questi immortala le donne impegnate nelle linee di montaggio di una fabbrica di aeroplani, evidenziando una dinamica che comincia ad affermarsi durante il periodo bellico.

La riflessione sull’emancipazione femminile costituisce uno dei temi fondamentali della sua ricerca.

Questa  attenzione per i temi sociali continuerà a caratterizzare il suo lavoro anche dopo il suo trasferimento a Londra nel 1961, quando la sua fama sarà ormai conclamata: firmati contratti con prestigiosi periodici di approfondimento (tra i quali il “Sunday Times Magazine”), la Arnold catturerà con il consueto acume le trasformazioni della società britannica nella prima fase del regno di Elisabetta II, tra boom del ceto medio e crisi dell’Impero.

Da rigorosa osservatrice del tempo in cui vive, Eve Arnold non rimane indifferente alle grandi questioni della politica, e alle modalità di rappresentazione di quel mondo: a quest’ultimo si avvicina con uno sguardo già maturo, che ha nel ritratto la sua declinazione prediletta. A partire dagli anni ’50, posano davanti al suo obiettivo vari protagonisti della scena politica americana, dal presidente Dwight Eisenhower al senatore Joseph McCarthy, fino ad arrivare a Malcolm X.

Al fine di ottenere un racconto più completo, la fotografa si spinge ben oltre l’iconografia tradizionale, estendendo il suo sguardo all’entourage che circonda questi soggetti, alle persone che ne condividono il “mito” e che quindi contribuiscono allo stesso. In questa prospettiva, Arnold dedica alle mogli dei leader politici un’attenzione non meno significativa, rendendole oggetto vivo e distintivo del suo lavoro: la sua macchina fotografica cattura così ritratti peculiari di due first lady come “Mamie” Eisenhower e Jacqueline Kennedy. Sono anche questi i punti-cardine di una riflessione sull’emancipazione femminile che costituisce uno dei temi fondamentali della sua ricerca.

L’interesse per i miti della cultura di massa è poi approfondito in quello che diventerà probabilmente il soggetto privilegiato dell’opera di Eve Arnold: il mondo del cinema.

Lo stardom hollywoodiano non tarda a spalancarle le sue porte, sull’onda del rapido successo che la investe: nel 1952 è ammessa a seguire una sessione di registrazione di Marlene Dietrich, della quale realizzerà alcuni degli scatti più affascinanti, mentre nel 1954 immortala una Joan Crawford ormai avviata al “viale del tramonto”, cogliendo in pieno l’orgoglio ma anche la fragilità di una diva che vede la propria immagine sgretolarsi fra le proprie mani, dimenticata da un’industria che insegue sempre più il “nuovo”, in tutte le sue sfaccettature.

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Marlene Dietrich in New York City, Nov. 1952

 

Nello stesso anno, incontra ad un party Marilyn Monroe, che le chiede di posare per lei. È l’inizio di un rapporto di grande ispirazione artistica per la fotografa, che di lei dirà:

Non ho mai conosciuto nessuno che avesse neanche lontanamente la naturale capacità di Marilyn di sfruttare sia il fotografo che la macchina da presa. Poiché eravamo entrambe inesperte e non sapevamo bene cosa fosse meglio evitare, improvvisavamo e facevamo in modo che ne uscisse un buon prodotto. Nel corso degli anni ho capito che la mia era una posizione privilegiata: Marilyn non aveva semplicemente un dono per la macchina fotografica come avevo pensato all’inizio, era un vero genio della fotografia.

L’incontro con la diva che ha fatto della dialettica tra sguardo e soggetto il suo dramma produce alcuni degli esiti più interessanti nei ritratti realizzati sul set degli Spostati (J. Huston, 1960), che restituiscono l’immagine di una Marilyn inedita, assorta e solitaria, riflesso di un’inquietudine silente, forse scaturita dal presagio di una fine non lontana, anch’essa destinata a diventare, come una maledizione, l’ennesimo mito americano: in quest’ottica, le fotografie scattate sul set di questo film, nella luce perfettamente omogenea del deserto del Nevada, possono davvero essere lette come una sorta di testamento dell’icona del divismo del XX secolo.

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Marilyn Monroe in the Nevada desert during the filming of ‘The Misfits’, USA, 1960.

 

 

 

 

Nello stesso periodo, aggiunge alla sua personale “galleria” anche Orson Welles e Paul Newman; tuttavia, al di là della ritrattistica, il suo confronto con il cinema si rifletterà anche nella sua attività di fotografa di scena sul set di ben 35 film (molti dei quali diretti dall’amico John Huston).

Sempre nel decennio segnato dalla figura di Eisenhower la Arnold mette definitivamente a fuoco il campo della sua attività, che vede aggiungere a servizi pubblicitari, shooting di moda e servizi di costume un altro importante elemento: il reportage di viaggio. Il primo è realizzato ad Haiti, dove ritrae la prima dottoressa del Paese insieme ai suoi pazienti; nello stesso periodo firma The Sexiest City in the World, pulsante racconto dell’Avana e della sua gente.

Come anticipato, a inizio sixties la fotografa decide di stabilirsi in Inghilterra, dove vivrà il resto della sua vita. In questa scelta si manifesta la sua necessità di assumere un punto di vista differente sulla realtà, che deriva anche dalle sue esperienze di viaggio. Gli echi provenienti dall’altra sponda dell’Oceano Atlantico la richiamano però quasi subito in patria: gli anni ’60 vedono una coscienza nera ormai pronta a reclamare il proprio posto nella società.

Fotografare Malcolm X significa per Eve apprendere nuovi insegnamenti sul concetto di manipolazione.

Sono anni di grandi sogni e rivendicazioni, che arrivano all’opinione pubblica tramite le immagini di raduni monumentali tra i “templi” del potere bianco e le prese di posizione “scomode” da parte di varie stelle dello sport, e animate da uomini e donne che, a partire da Rosa Parks, apriranno la strada anche ad altre rivoluzioni, destinate a nascere qualche anno dopo nei campus universitari della California: sono gli anni di Martin Luther King, Malcolm X, Muhammad Alì.

Il fascino di questi cambiamenti, tanto improvvisi quanto dirompenti, è irresistibile per Eve: armata, come sempre, di una macchina fotografica e della sua curiosità, segue in particolare i comizi “incendiari” del leader della Nation of Islam, riuscendo addirittura a realizzare alcuni suoi ritratti (un servizio a lei commissionato da “Life” sul personaggio verrà ritirato).

Il rapporto con questa figura e la sua “aura” mitica costituisce per la Arnold l’occasione per esplorare questioni cruciali del linguaggio fotografico, com’era stato alcuni anni prima con la diva Marilyn: proprio come con l’attrice resa icona da Andy Warhol, fotografare X significa per Eve apprendere nuovi insegnamenti sul concetto di manipolazione:

Sono sempre stata affascinata dalla manipolazione che avviene tra soggetto e fotografo quando il soggetto conosce la macchina fotografica e sa come sfruttarla a suo vantaggio. Malcolm era abilissimo in questa collaborazione silenziosa.

L’esplodere della questione razziale spinge Eve ad approfondire la cultura black nella complessità delle sue espressioni, evidenziandone la portata politica. Alcuni servizi di questi anni possono essere considerati oggi dei veri e propri documenti di rilevanza storica: fra questi, si segnala The Black Bougeoise (1964), che racconta l’attivismo delle comunità della ricca borghesia afroamericana di New York a sostegno della lotta per i diritti civili, svelando  lussi e riti collettivi fino ad allora ignorati dalla grande narrazione mediatica e, soprattutto Black is Beautiful (1968),  magistrale trattato dei movimenti “tellurici” che in quegli anni ridefiniscono la percezione dell’identità nera nella società statunitense, affermando una nuova estetica: protagonisti di questo rivoluzionario reportage incentrato su moda e costume, la star del soul James Brown  e le modelle attive sulle passerelle di Harlem, tra le quali spicca la figura di Cicely Tyson, icona di una sensualità ribelle e fiera delle proprie espressioni.

eve arnold black is beautiful

Nell’ultima parte della sua carriera, Eve Arnold dedica gran parte dei suoi progetti al tema dell’interazione fra le culture, esplorato attraverso viaggi che toccano tutti i continenti del globo. La mostra si conclude così con un omaggio alle fotografie scattate in India ed Estremo Oriente negli anni ’70 e ’80, in cui la tradizione di antichi riti convive con le espressioni di una modernità incipiente.

Song and dance troupe, China, 1979.

A questi lavori, che riflettono la ricerca di una certa spiritualità ma anche il fervente desiderio di capire dove va il mondo, si accompagnano i primi riconoscimenti, che passano anche per mostre e libri: tra i molti, si ricordano soprattutto In America (1981), testimonianza del tramonto delle utopie vissute e raccontate negli sfavillanti servizi degli anni ’60, e Marilyn Monroe… An Appreciation (1987), destinata a diventare una delle più celebri raccolte fotografiche della diva per eccellenza. Al centro di iniziative e tributi sempre più numerosi, che si susseguiranno per tutti gli anni Novanta e Duemila, Eve morirà centenaria a Londra, nel Paese che da circa mezzo secolo aveva scelto come vera e propria patria.

Risulta facile, osservando i suoi scatti, immaginarla raccogliere le inquietudini di Marilyn, le pretese di Marlene o i lamenti nostalgici di Joan, in un camerino dalle luci soffuse o in un bar  dove risuona una musica dolente.

Attraverso un ricco allestimento, curato da Monica Poggi in collaborazione con Magnum Photos, Eve Arnold. L’opera 1950-1980 ha esplorato l’universo di una fotografa “di rottura”, capace di accostarsi al vento travolgente della propria epoca realizzando opere-documento che “scrivono” con la pura forza dell’immagine (e dello sguardo che le sta dietro) la nostra storia, tra società, cultura e immaginario. Il tutto, con un rispetto per il soggetto davvero raro, tanto che risulta facile, osservando i suoi scatti, immaginarla raccogliere le inquietudini di Marilyn, le pretese di Marlene o i lamenti nostalgici di Joan, in un camerino dalle luci soffuse o in un bar  dove risuona una musica dolente. Eve Arnold: in breve, il Novecento.