Fink, umile custode del regno acustico

Si chiude allo sPAZIO211 di Torino la parentesi acustica di Fin Greenall, in arte Fink, in Italia. Report a cura di Umberto Scaramozzino.

Delle sette date nel nostro Paese, quella di Torino è la prima in piedi. Fink lo puntualizza con un pizzico di sollievo, quando specifica che a lui piace la calma dei concerti contemplati, quelli acustici in teatro, tutti seduti, ma preferisce quella cosa lì. Quando sente le persone riempire un locale con la loro esuberanza, con le voci che si intrecciano e dilatano nei secondi di attesa, tra un’accordatura e un cambio di chitarra. Esattamente quello che succede nel club torinese, dove la platea dell’ennesimo sold out circonda Fink e Thomas Moked Blum – il suo braccio destro – sia fisicamente, che emotivamente.

Fink si porta dietro un bagaglio di umiltà che ha pochi paragoni. Non fa il fenomeno, non fa moine inutili, ma ringrazia. Una, due, tre volte. Evidenzia ciò che apprezza del luogo, della platea, della serata. In questo caso, anche del cibo. Sempre col sorriso di chi è genuinamente consapevole della fortuna di trovarsi su quel palco, anche se con la fortuna, la sua presenza su questo o qualunque altro palco, ha poco a che vedere.

Dopo una proficua carriera da discografico, con un portfolio da produttore tutt’altro che trascurabile – può vantare artisti eccezionali come il compianto Ryuichi Sakamoto e gli Elbow – e dopo aver capito che la sua strada parallela da DJ non sarebbe andata nel modo in cui sperava, Fink trova la sua dimensione più congeniale all’inizio del Terzo Millennio. Chitarra folk, voce blues, arrangiamenti ricchi, testi ermetici e profondi: ecco la ricetta del perfetto songwriter. Da lì in avanti il percorso artistico è disseminato da dischi e prove dal vivo di qualità assoluta, che pongono Mr. Greenall su un piccolo piedistallo, lo stesso sul quale si rifiuta di stare.

Chi ha avuto la fortuna di vederlo in uno dei precedenti tour, accompagnato dalla sua ottima band, sa con quanta cura la sua musica venga proposta dal vivo. A volte con brani eseguiti con precisione chirurgica, fedeli alla prova in studio, altre volte con versioni riarrangiate per ampliare ancora di più l’esperienza. In entrambi i casi la performance diventa una corsa contro il tempo, che scivola come sabbia finissima tra le mani, nel vano tentativo di rallentare, afferrare, trattenere. Come si ricrea quella sensazione – quel “vorrei non finisse mai” –  in un tour “solo acoustic”? Non serve fare molto: ci pensa la voce di Fink a replicare la magia. Thomas Blum con le sue chitarre armonizza, arricchisce, ma il grosso del lavoro lo fanno le melodie create da Fink in vent’anni di carriera, al servizio della sua ugola.

Da “Distance and Time” in avanti, praticamente ogni album della discografia trova spazio, anche se a dominare sono “Sort of Revolution” e “Perfect Darkness”. I pezzi in scaletta sono solo dodici, ma grazie alla loro lunghezza media e ai ritmi tutt’altro che frenetici di questo show, la serata è ricca e piena. Un’ora e mezza per eleggere Fink come uno dei migliori cantautori folk/blues della nuova tradizione inglese, nonché uno dei più abili nel mantenere viva la magia delle sue grandi intuizioni musicali anche in versione acustica. Un custode, che non ha bisogno di vantarsi del gran prestigio del suo ruolo, ma che sa di avere un compito importante da svolgere quotidianamente. E lo fa con cura, dedizione, passione. Teniamocelo stretto, ché di artisti così non ne fanno più.