Costruita alla fine dell’Ottocento come locale adibito al lavaggio dei panni dell’adiacente Regio Manicomio, la Lavanderia a Vapore di Collegno vive una nuova vita a partire dal 2008, quando si afferma come centro di residenza nonché eccellenza regionale nella danza. Dal 2015 è gestita dalla Fondazione LIVE Piemonte dal Vivo – Circuito Regionale dello Spettacolo ed è considerata a tutti gli effetti la Casa della Danza in Piemonte, in virtù d’un programma di alto profilo che attraverso una vocazione sperimentale che abbraccia incursioni nel teatro e nella musica si rivolge a chiunque voglia avvicinarsi al linguaggio della danza. Da un passato di brutale oppressione legato all’ex ospedale psichiatrico ad un presente e futuro come spazio di liberazione di corpo e mente in un’ottica artistica e sociale, personale e collettiva.
In occasione della Giornata Mondiale della Danza, la Lavanderia a Vapore ha in programma una serie di appuntamenti speciali tra Collegno e Torino. Ci è sembrata l’occasione ideale per approfondire genesi, sviluppi e scenari futuri del progetto con la coordinatrice Chiara Organtini, che ringraziamo per la disponibilità e i preziosi spunti di riflessione.
A cura di Lorenzo Giannetti
Partirei con un breve introduzione al suo approccio alla direzione – forse piace di più ad entrambi il termine cura o curatela – della Lavanderia. Come ha incrociato il suo destino professionale a questa meravigliosa roccaforte culturale a Collegno?
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Grazie della domanda e di aver colto un aspetto fondamentale che a molti può sembrare una sfumatura: quello della direzione come traiettoria condivisa generata e supportata da una leadership orizzontale di un gruppo e non come ruolo direzionale in un’organizzazione piramidale. Nella mia storia professionale ho spesso curato e contribuito a progetti corali, come il progetto Foresta o How to be together, nei quali le arti performative infettavano spazi e immaginari: processi creativi che investivano e ridefinivano spazi pubblici o non convenzionali, lavori site specific e partecipativi che hanno sviluppato la passione e convinzione che nella collettività sia possibile generare esperienze inattese che spostano la visione sul presente… e sul futuro. Intrecciando finzione, dimensione artistica e impatto reale.
Parto da esperienze in festival come il Terni Festival Internazionale della Creazione Contemporanea e Santarcangelo Festival, da progetti di cooperazione internazionale come Insitu e Bepart fino alla gestione di spazi rigenerati come il CAOS Centro Arti Opificio Siri. Questa traiettoria mi ha spinta verso la Lavanderia a Vapore dove la poetica di rilettura degli spazi rigenerati, il lavoro intensivo di accompagnamento alla ricerca artistica orientata al processo e non solo al prodotto, hanno la possibilità di germogliare in nuove politiche culturali e dove la relazione dentro-fuori è nel tessuto identitario di uno spazio che nasceva come luogo di separazione: cerchiamo di praticare la tensione di andare “oltre il muro” in relazione alla dimensione fisica dello spazio e nel tentativo di riconnettere settore artistico e società civile, facendo incontrare persone e moltitudini diverse attraverso il terreno immaginifico aperto dalla ricerca artistica.

In tal senso, ci aiuti a mettere tutto nella giusta prospettiva: le va di spiegarci come si inserisce il progetto Hangar all’interno della Lavanderia? E in cosa consiste/chi coinvolge.
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Hangar e Lavanderia a Vapore sono due progetti promossi dalla Fondazione Piemonte dal Vivo, sono quindi due traiettorie di sviluppo della Fondazione che si profila sempre di più come organismo complesso, volto a connettere arti performative e trasformazione sociale. Hangar e Lavanderia hanno identità specifiche e ambiti di azione distinti, Hangar come laboratorio di accompagnamento alla trasformazione culturale mentre Lavanderia come spazio per la ricerca e creazione artistica, ma condividono una visione e un vocabolario comune: questa alleanza si concretizza ad esempio nel coinvolgimento della voce di Lavanderia all’interno della sezione Inspirazioni promossa da Hangar stesso, sul proprio sito, per riflettere su parole chiave del cambiamento.
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Tornando al termine “cura”, hai utilizzato questa espressione in relazione agli obiettivi della vostra mission, mettendola però in una prospettiva collettiva oltre che politica. Ti va di raccontarci a che punto è e come sta andando a tuo parere questo processo?
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Sì, la parola cura è molto sdrucciola e abusata in alcuni casi: noi volevano problematizzarla passando dalla percezione di gentilezza e assistenza a forza rigeneratrice che trasforma e rimedia alle asimmetrie di potere cui assistiamo, per un futuro più equo e in cui il piacere e la reciprocità sostituiscano la competitiva cinica e relazioni utilitaristiche. In questo senso la domanda alla base che agiamo con il nostro operare è imparare a stare insieme e creare spazi di intersezione: abbiamo realizzato molti progetti collettivi, imparando a gestire frizioni e mediare facilitando progetti artistici corali. Abbiamo lavorato con settori trasversali dando vita a progetti con RSA, dedicati alla vulnerabilità e a gruppo intergenerazionale, che cercassero nuovi riti.
Anche nell’accompagnamento alle residenze, la cura si concretizza una presenza costante in sala, in affiancamento drammaturgico fatto di domande e feedback non assertivi, oltre alla percezione dei desideri degli artisti e artiste; ci attiviamo inoltre per abilitare le condizioni necessarie allo sviluppo dei loro processi, inclusi tentativi di farli incontrare con figure artistiche di settori altri, interlocutori in base alla specificità del progetto. Senza pressioni produttive o di presentazione. Un grosso lavoro da fare però è prenderci cura di noi, rallentando i ritmi e istituendo dei piccoli riti, per il nostro benessere e nutrimento creativo.
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Mi ha colpito anche in tal senso hai parlato di cura non solo dell’altro inteso come gli altri ma anche come altero: prenderci cura del diverso da noi, delle alterità e delle differenze. Il mondo di oggi – ancor di più nella bolla dei social – sembra andare nella direzione opposta. Da dove si può e si vuole ripartire?
Sì, la relazione con l’altro e l’alterità è qualcosa che ci abita ma che spesso è negata dal paradigma normante e binario che tende a semplificarci, mortificando il nostro essere complesso. Pensiamo alla questione dell’identità e di come ci sia una tendenza semplificatrice a formattarci, livellandoci su un profilo possibilmente leggibile ed etichettabile e fissandoci in un ruolo univoco e poco plastico. In questa direzione prezioso è il concetto di queering che ci permette di passare dalla dimensione individuale a quella collettiva per altro, intrecciando come ci relazioniamo con mondi, con altri gruppi e specie. Per me è fondamentale ripartire dal corpo, quindi dalle esperienze concrete, creando momenti in cui persone distanti e diverse hanno l’opportunità di incontrarsi e aggregarsi: creare delle intersezioni in cui anche prospettive opposte possano convergere e collidere spezzando i pattern relazionali che sperimentiamo nel quotidiano e nei contesti normati.
Importante è anche il lavoro sul linguaggio che ha – a tutti gli effetti – la capacità performativa di istituire nuove possibilità, nominando e legittimando forme di coabitazione, nuove e scomposte: in questo senso molti progetti artistici lavorano alla creazione di connessioni impossibili tra mondi, anche a cavallo di digitale e analogico come relazioni emotive con le intelligenze artificiali o con entità distanti.
Questi tentativi di creare nuovi assemblaggi e convergenze sono lo spazio di manovra dei linguaggi artistici. La capacità che abbiamo nel configurare nuove simmetrie relazionali.
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Entriamo un po’ più nel concreto, facendo qualche esempio: ci parli di qualche attività/laboratorio/workshop/talk etc svolto nell’ambito del suo lavoro in Lavanderia fatto in questi anni che l’ha colpita nel profondo per qualche ragione?
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A novembre scorso abbiamo realizzato la prima edizione pilota del Research Camping insieme a Workspace Ricerca X e Shared Training Torino. Nel corso della due giorni abbiamo trasformato gli spazi di Lavanderia, il foyer in una piscina e il palco in un accampamento di tende, dove artiste e artisti hanno proposto pratiche condivise; è stato uno dei primi esprimenti che ha generato una cosmologia a sé, in cui tanti e tante si sono sentiti accolti e liberi di re-stare, generando nuove posture mentali e fisiche.
A giugno 2023 ci sarà la seconda edizione di questo format, dal titolo Bodies en plein air. Il progetto conferma il desiderio di dare vita ad una comunità artistica che si riunisce, scambiandosi pratiche e traiettorie di ricerca, prospettive e riflessioni a partire dal corpo e aprendosi all’“esterno” in maniera porosa, lasciandosi attraversare da partecipanti e visitatori. Ispirandosi ai processi circolari di condivisione e trasmissione, mescolanza e contaminazione, metabolizzazione e compostaggio reciproco, il paesaggio del Camping 2023 insiste su nutrimento e convivialità come formule e ritualità per creare nuovi assemblaggi di umani e sostanze. Gli scenari che faranno da cornice e attivatori di queste domande saranno il Bar e l’Edicola nomade. Partendo dalla Sala Grande di Lavanderia, si snoderanno verso l’esterno, nel Parco della Certosa.
Veniamo all’evento speciale del 29 aprile: la Giornata Mondiale della Danza. Come descriverebbe il suo rapporto con la danza (a livello proprio personale)? E, domanda dalla risposta potenzialmente infinita, me ne rendo conto: “come sta”, oggigiorno, la Danza, a livello generale?
La mia relazione con la danza è quotidiana, sento il bisogno di essere presente e consapevole del mio corpo e della dimensione sensoriale per non ridurre la percezione alla testa e al pensiero razionale, ma ascoltare e sentire anche pancia ed emozioni come principio progettuale. Per danza non intendo solo la forma o il codice, ma i fenomeni di attivazione e movimento, visibile e invisibile, che attraverso e da cui sono attraversata. In questo senso la danza è nel vivente, nel paesaggio, nel traffico, nel suono, è una lente e una modalità di essere e sento di avere una prospettiva che è un po’ un carrello mobile, sempre in cerca di slittamento e disequilibrio.
Rispetto al suo stato di salute quindi, mi chiedo: quale danza? La danza come linguaggio artistico è paesaggio troppo vasto per una diagnosi generale, ci sono moltissime poetiche che sempre più ricercano un’ibridazione interdisciplinare e sconfinano verso forme installativi o cercando relazioni non frontali, questionando gli sguardi e i ruoli. Forse, un desiderio per me è che ci sia un ingaggio politico sempre maggiore e più radicale perché davvero ha il potenziale di farci immaginare un mondo altro rispetto a quello attuale.
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Del programma del 29 mi colpisce in primissimo luogo in laboratorio “baby rave”, che mira ad un “sovvertimento dei tradizionali ruoli di potere, nell’ottica di ridefinire la percezione di ciò che un rave può diventare”. Trovo che si tratti di una scelta coraggiosa quanto fondamentale, a pochi mesi dal decreto – cosiddetto – antirave, che porta avanti una narrazione tossica e falsata di un fenomeno molto più complesso. Una narrazione che con la Outsiders webzine osteggiamo con forza.
Il Baby Rave è un progetto che sviluppiamo in collaborazione con Reykjavík Dance festival e che coinvolge artisti e artiste islandesi e italiane e che ci ha subito attratto proprio per la sua indole istigatrice di rovesciamento dei ruoli e dell’immaginario. Cosa succede se i bambini prendono il potere e diventano direttori di un evento? E in quest’ottica di ribaltamento di prospettive, mi interessa questionare e decostruire la narrazione stigmatizzata che si è fatta dei rave come momenti di pericolo e rischio: in questo momento storico assistiamo ad una politica che agisce in modo assertivo per divieti con modalità profondamente divisive, annullando le possibilità di esercizio del muscolo critico e relazionale con sentimenti di paura come se il corpo sociale non fosse già abbastanza minato dalla pandemia e dalla deriva dell’isolamento. Il Baby Rave è una risposta alla necessità di immaginare invece spazi di mescolanza e prossimità, ribandendo il ruolo fondamentale di questi rituali come cuciture di una ferita e frattura nel tessuto sociale.
Altri due eventi mi forniscono uno spunto “geografico”: il laboratorio al PAV e quello al Parco Dora, a mio parere, hanno il pregio di mettere in relazione ambiente naturale e ambiente cittadino/urbano. Non in maniera antitetica e conflittuale, come spesso accade, ma in un dialogo benigno e virtuoso. Cosa può dirci in merito e, allargando il discorso, come e perché sono state scelte le location delle attività “diffuse” della Giornata della Danza.
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La scelta dei luoghi è parte di un disegno drammaturgico che sposa contenuto, strategie di connessione con persone e pubblici e anche esigenze concrete e specifiche delle progettualità artistiche che sono al centro dell’evento e naturalmente connesse da un filo rosso. La geografia dei luoghi racconta una stratificazione che è propria di Torino, in cui natura e industria coesistono in modo integrato, ma che spalanca anche una finestra sul tema del terzo paesaggio e sulle aree rigenerate che raccontano di come l’universo vegetale si impossessi di spazi industriali, confondendo passato e futuro, insegnandoci modalità adattive di resistere e riappropriarci dei contesti in chiave post antropocentrica.
Il Pav è un progetto unico che si allontana dalla dimensione controllata della natura, non la istituzionalizza in forma musealizzata ma è a tutti gli effetti un museo vivente, in cui la natura cresce liberamente, un sapere da cui apprendere: qui lavoreremo con il gruppo Dance Well che da tempo ricerca le analogie tra il tempo vegetale e quello umano, anche in relazione alla malattia che informa un ritmo specifico alla presenza umana. “Le Classique c’est chic” tocca Parco Dora attraversando l’Environmental Park ma in dialogo con il centro commerciale e la molteplicità cangiante delle destinazioni d’uso dell’area, spesso zona di eventifici e fiere, a volte in conflitto con le attività permanenti che lì invece trovano la propria casa con gruppi e comunità che diventano veri e propri presidi culturali.
Le pratiche artistiche approdando in questi luoghi creano delle eterotopie*, spazi temporanei negli spazi esistenti che ne agiscono possibilità e possibili usi, ma sempre partendo dall’ascolto di ciò che c’è, per dar voce a cosa manca.
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In particolare, poi l’appuntamento con Le Classique c’est chic mira a scardinare i cliché sui “luoghi preposti” alla danza. E a questo punto verrebbe da dire che forse la danza – nell’ottica allargata in cui ne stiamo parlando – non sia presente in un luogo fondamentale come la scuola… Quanto, a suo parere, manca una proposta “trasversale” legata alla danza a livello didattico?
“Le Classique c’est chic” mette in discussione i luoghi deputati ma anche i corpi deputati alla danza, decostruendo il codice e l’idea di corpo conforme, tema molto sensibile nel nostro ambito ed estendibile al paradigma del corpo abilista. Al livello didattico ci sono occasioni formative importanti che rivedono anche in termini di metodologie la struttura educativa tradizionale, promuovendo comunità di pratiche, scambi peer to peer o mentoring che non solo trasmettono saperi, ma rendono artiste e artisti capaci di trovare la propria voce e la propria poetica. Questo disattiva i meccanismi di competizione e di mortificazione del corpo che spesso si riscontrano nell’ambito della danza. Abbiamo una fioritura di scuole e anche di licei coreutici; esiste, quindi, un’offerta ma il mio desiderio è che si entri sempre più in contatto con centri di ricerca e pratiche artistiche sul campo, così da offrire un prisma ricco di cosa la danza può essere e fare.
In Lavanderia un progetto molto significativo che si è sviluppato negli anni, Media Dance, lavora con Istituti Superiori cercando di stimolare, attraverso le pratiche artistiche, l’innovazione didattica per i docenti e l’apertura di spazi di dialogo e riflessione su temi del contemporaneo che spesso escono dai programmi ministeriali. Non si tratta di laboratori per le scuole, ma di residenze di ricerca di artiste e artisti che si svolgono nelle scuole e che si nutrono reciprocamente del coinvolgimento dei ragazzi e delle ragazze in quanto voci critiche attive che informano il processo artistico che, a sua volta, offre strumenti e modalità di speculazione.
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Cambiando argomento: che rapporto c’è con la città di Collegno e che risposta ha dalla cittadinanza? E nel caso, come le piacerebbe migliorarlo/integrarlo/modificarlo/implementarlo?
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La città di Collegno è una piccola oasi di soprese, ci sono moltissime organizzazioni attive in ambito politico e culturale, iniziative progressiste e illuminanti che la rendono un terreno ideale di sperimentazione. Il Comune è partner del nostro progetto, nonché proprietario dell’edificio che gestiamo da 7 anni, entrando in dialogo continuo, rispetto a temi e proposte che portiamo avanti e che intercettano nodi rilevanti per la città e i cittadini. Siamo entrati nella rete ANCORE e siamo parte dell’offerta formativa ufficiale. A breve lavoreremo nello spazio pubblico con un atelier di creazione e queste azioni rinsaldano una relazione costante e un radicamento di Lavanderia oltre alle proprie mura.
Siamo anche consapevoli però che l’offerta culturale, soprattutto nel caso di progetti di sperimentazione, rischia di intercettare solo una nicchia di addetti ai lavori e affezionati. Sentiamo quindi che è necessario continuare un lavoro attento di ramificazione e sviluppo di relazioni che va oltre l’invito a teatro.
Cose su cui stiamo lavorando: la creazione di contesti intorno al singolo progetto, azioni co-progettate con persone e organizzazioni, perché ci sia davvero qualcosa che li ri-guarda in quello che proponiamo. E al livello di contenuti, dare spazio a temi urgenti e spesso invisibilizzati, attraverso progetti che permettano al pubblico di entrare ed immergersi in un’opera, ad esempio con formati durational o installazioni in cui le persone possano entrare fisicamente, o partecipare evitando la frontalità dello spettacolo da fruire/consumare. Momenti, cioè, di incontro in cui fare esperienza diretta di mondi altri.
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E poi, mi fa sempre piacere mettere in scena anche il “backstage” delle realtà virtuose sul territorio: le va di parlarci dello staff che c’è dietro questa giornata ed in generale dietro al “motore” della Lavanderia?
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Alla Lavanderia ho trovato diverse professionalità, colleghi e colleghe molto motivati e preparati che sono parte fondamentale delle attività che progettiamo. Come dicevo all’inizio, per me la direzione è vissuta come una traiettoria condivisa generata e supportata da una leadership orizzontale di un gruppo e non come ruolo direzionale in un’organizzazione piramidale. Sebbene ciascuno abbia un’area precisa di riferimento, come team lavoriamo spesso insieme, in maniera trasversale, perché le azioni appunto non sono “semplici eventi” ma parte di una traiettoria. Ne è un esempio la giornata del 29 aprile, dove abbiamo cercato di mettere a sistema diverse esperienze per promuovere non tanto un cartellone di appuntamenti quanto una riflessione sul senso della danza oggi e come un approccio artistico/creativo possa di fatto aiutare a cambiare la prospettiva degli sguardi.
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In ultimo, uno sguardo al futuro: quali sono i prossimi progetti in ballo?
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Oltre alla seconda edizione del Research Camping a inizio giugno, a maggio abbiamo diversi progetti che sottolineano la natura di Lavanderia. L’Atelier di creazione per lo Spazio Pubblico – che citavo anche prima – è un progetto pilota alla sua prima edizione, che abbiamo ideato per offrire un percorso di ricerca pratico-teorica ad artiste e artisti interessati a esplorare lo spazio pubblico come contenitore e contenuto della propria sperimentazione. Nove coreografi e coreografe italiani – selezionati tramite call – lavoreranno per una settimana insieme a 3 mentor esplorando diverse poetiche e spazi: nell’area del Parco della Certosa con il coreografo Quim Bigas Bassart, negli spazi di incontro e aggregazione con la coreografa Jessica Huber e in non-luoghi con l’artista e performer Sara Leghissa.
Subito dopo avremo un atelier internazionale insieme a European Dancehouse Network e al gruppo Al.Di.Qua. (Alternative Disability Quality) Artists, sul tema dell’accessibilità. Le giornate di lavoro propongono uno slittamento di percezione – dalla disabilità alle condizioni disabilitanti che permeano la nostra società – favorendo auspicabilmente un cambiamento paradigmatico sui tempi e i processi che condizionano il presente di ciascuno.
A conclusione, il 26 maggio ci sarà anche un convegno pubblico, con ospiti nazionali e internazionali, per tentare di rispondere provvisoriamente alla domanda “What makes you disable?”, mettendo a sistema quanto emerso durante l’atelier, tramite voci ed esperienze rilevanti, formulando nuove policy per condizioni abilitanti.
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*«quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano»