La nostra recensione di The Son, ultimo atto di una lunga riflessione sul tema della famiglia da parte di Floria Zeller.
_di Alberto Vigolungo
The Son di Florian Zeller è un dramma puro che vaga alla ricerca dei fili di un rapporto interrotto, per il quale la vita di una delle persone coinvolte è andata in pezzi. Vertici di questo triangolo, un padre separato sulla soglia di un presente ricco di promesse, un figlio adolescente depresso e una madre per la quale la fine del matrimonio resta una ferita aperta.
Sostenuto da una ricca produzione e presentato a Venezia 79, The Son è approdato ai Golden Globe, per poi essere clamorosamente escluso dalla lista dell’Academy.
The Son trama
Peter Miller ha tutto: una nuova vita dopo il divorzio (con una compagna che ha appena dato alla luce un bambino), un loft alla moda nel cuore di Manhattan, una carriera di successo come avvocato, per la quale è chiamato a Washington a collaborare alla campagna di uno dei due candidati alle elezioni presidenziali… E tutto, all’improvviso, cambia.
L’ex moglie che si precipita da lui senza preavviso, l’ansia dipinta sul volto, e una frase, amara: “Tuo figlio non va più a scuola”. Il figlio è Nicholas, 17 anni, un ragazzo introverso che coltiva il sogno di diventare uno scrittore, ma che da qualche tempo pare aver smarrito qualsiasi voglia di vivere, chiudendosi sempre più in se stesso. Dopo un colloquio con il giovane, entrambi i genitori lo assecondano nel suo desiderio di andare a vivere con il padre il quale, presa coscienza della situazione, fa di tutto per aiutarlo e comprendere le cause del suo malessere: cerca di passare più tempo con lui, prende contatti con uno psicanalista e pure Beth, la sua nuova compagna, accoglie il ragazzo di buon grado.
Nel giro di qualche settimana, le cose sembrano andare meglio: Nicholas si iscrive ad un’altra scuola e con il padre parla dell’invito ad una festa di classe. Peter ha fiducia e la comunica alla ex, con la quale si commuove rievocando il loro passato insieme, e dove è rimasta la felicità del figlio. Ma Nicholas mente, di nuovo. Smette di frequentare la scuola dopo poco, continua a ferirsi, con un coltello che Beth trova nascosto sotto il suo materasso.
Poi il ricovero, la diagnosi di depressione, la decisione di riportarlo a casa contro il parere del medico. Alla fine, di quel figlio così fragile, rimarrà soltanto il ricordo di una nuotata nel mare della Corsica, in un’estate di tanti anni prima, e un senso di colpa che travolge tutto.
The Son recensione
Trasposizione dell’omonima pièce scritta e diretta dall’autore francese nel 2018 a conclusione di una trilogia sul tema dei rapporti familiari iniziata con La Mère (2010) e proseguita con Le Père (2012), il film approfondisce i contorni di una storia lacerante in un contesto socialmente affermato, tra dolori celati e sentimenti difficili da esprimere.
Penetrando l’ombra di un’inquietudine silente e via via più grave. Tuttavia, rispetto a Le Fils, la versione cinematografica non sembra aggiungere molto, configurando anzi una sorta di “copia” in cui la dimensione teatrale si avverte a più riprese (a partire dalla sensazione di film “parlato”, citando un’espressione cara alla critica di un tempo): evidente l’intento del regista di concepire il progetto di The Son come un rifacimento quasi letterale dell’opera originale, sfruttando le potenzialità del medium cinematografico in misura minima.
Il film è infatti contraddistinto da una regia e una sceneggiatura piuttosto tradizionali (si pensi ai molti dialoghi in campo/controcampo e ripresi da una macchina instabile, così come allo sviluppo del “plot”, per lo più privo di discontinuità). In questo senso, Zeller adotta una strategia rappresentativa tanto sicura quanto precisa, che si coniuga con un “bisogno” di fedeltà al testo, limitandosi a insistere su un fattore di emotività che soltanto il cinema è in grado di esprimere al massimo.
Se i movimenti di macchina, talvolta accennati, talvolta evidenti, costituiscono l’elemento filmico più esplorato, il movimento circolare costituisce quasi un motivo, metafora del disagio e del disorientamento che irrompe nelle vite di tre persone. Al centro di esso è, ovviamente, il figlio. Tutto, nel film, ruota letteralmente intorno alla condizione di Nicholas, il cui dilemma esistenziale affonda le radici nel trauma segnato dalla separazione dei genitori (delineando un tipo di solitudine che ricorda quella propria degli adolescenti dei racconti di David Leavitt), e la cui natura tormentata è subito rimarcata, in una delle prime scene, nell’inquadratura in cui la sua figura è associata ad un ritratto di Arthur Rimbaud, e che finisce per assorbire la vita dei genitori, sempre meno concentrati sui loro impegni.
Un abisso silenzioso e totalizzante, per il quale lo smarrimento del giovane e dei suoi genitori è prevalentemente espresso tramite soluzioni tipiche di molto cinema, come si osserva in alcune scene caratterizzate da lente carrellate che avanzano sul volto dei personaggi fino a fissarlo in primissimo piano, mentre i suoni intradiegetici si attutiscono e i dettagli dell’ambientazione sfumano: figurazioni di stati psicologici affollati di dubbi e domande, ma anche indizi di un ritorno alla normalità impossibile, e, nel caso di Peter, della perdita di ciò che si è conquistato sul piano professionale.
La “rotazione” come moto della condizione esistenziale sofferta di Nicholas segna tuttavia l’aspetto visivo meglio riuscito del film: infatti, nel suggerire l’idea di un moto vorticoso che governa le dinamiche psichiche di questo personaggio, la regia di The Son non manca di esprimere soluzioni interessanti, giocando con la forza della metafora: così, mentre l’immagine dei panni intravisti nell’oblò di una lavatrice in funzione (che ritorna più volte nel corso del film) simboleggia i pensieri inafferrabili che “girano” nella testa del ragazzo, quella dello “stop” del ciclo ne preannuncia la fine tragica, peraltro consumata a poca distanza da quella stessa lavatrice.
In questa lenta, dolorosa deriva, c’è solo un momento in cui la svolta sembra possibile e al tempo stesso diventa improbabile: la scena del ballo a casa del padre e della sua compagna Beth, che fornisce anche l’occasione per raccontare la storia del loro incontro. Sulle note di It’s not unusual, Nicholas è partecipe della bellezza e della felicità di un uomo realizzato, prendendo definitivamente coscienza dell’incapacità di replicarne il modello. Da questo punto in poi, il rapporto tra padre e figlio torna a sfilacciarsi. Nicholas mentirà ancora, e Peter perderà definitivamente il controllo della situazione.
Ma, ben oltre a quelle di un racconto privato toccante e doloroso, il respiro di The Son arriva a toccare le corde di una storia che ci riguarda tutti, invitandoci a riflettere su un’idea di società divisa unicamente in vincenti e perdenti, e nella quale il successo individuale costituisce la linea di demarcazione tra queste due dimensioni.
In altre parole, il dramma di Florian Zeller stimola anche una lettura sociologica sul “lato oscuro” del mito americano, sui vortici (auto)distruttivi innescati dal perseguimento del successo a tutti i costi, di una felicità indossata come unica maschera possibile, dell’individuo libero da ogni responsabilità che non sia quella della propria affermazione sociale: elementi sublimati nella figura del padre di Peter, emblema del WASP che non ha mai messo in discussione le sue certezze da era eisenhoweriana: ciò che il protagonista non ha mai voluto essere ma che in qualche modo anche lui incarna, non senza provare un certo senso di colpa.
Da questo punto di vista, il film mette a nudo le ipocrisie e le paure di un mondo chiamato improvvisamente a fare i conti con se stesso. Il disagio di Nicholas Miller ha certamente a che fare con tutto questo. Non riesce a sopportare le pressioni e le aspettative di questa società, alle quali lo sottopone, seppur involontariamente, anche il padre: la paura di “non essere all’altezza”, come dice egli stesso. Il suo dramma sta nell’eterno dissidio, tutto americano, tra essere e apparire (tema che ha stimolato, non a caso, alcune delle riflessioni più sublimi non solo del cinema, ma anche dell’arte – si pensi al realismo inquieto delle tele di E. Hopper – e della letteratura statunitense, da N. Hawthorne a J.D. Salinger, passando per F.S. Fitzgerald); il dramma del “diverso” in una realtà caratterizzata, come scrive Susan Cain nel suo nuovo saggio, dall’”aspettativa sociale del sorriso”, dall’obbligo della felicità.
Retaggi senza i quali il Sogno americano, semplicemente, non esisterebbe. In questo film intriso di dolore e rimpianti, in cui le certezze di un coté borghese si infrangono una dopo l’altra, la sequenza finale costituisce un’immersione nella coscienza del padre, mostrando che cosa è diventata la sua vita dopo il rumore di quello sparo arrivato dal bagno di casa: la visione di Peter, che immagina il ritorno di Nicholas da Toronto con il suo primo romanzo appena ultimato e la promessa di una compagna da fargli conoscere, materializza un vuoto che commuove nella sua enormità e che opprime nel lacerante pensiero che le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa.
In questo senso, il titolo del libro mostrato dal figlio, Death Can Wait, dà l’intera misura del dramma di Peter Miller, centrando con precisione chirurgica il “nucleo” di un senso di colpa che trova la sua forma concreta nel fucile con cui il ragazzo si è ucciso, dono “virile” di un padre prevaricatore e mai utilizzato.
Conclusioni
The Son è un film sentito, nelle intenzioni del regista così come degli interpreti (con la “sorpresa” Zen McGrath a rivelarsi in un cast di stelle), decisamente all’altezza del tema. I sentimenti e le opinioni di Zeller non sono certo coperte in questo accorato atto di riflessione sul disagio giovanile e le sue manifestazioni, come si osserva negli inviti a non sottovalutare il problema affiancati ai titoli di coda, a dimostrazione di quanto queste tematiche abbiano toccato l’autore francese. Sono molti i Nicholas dei nostri giorni: per chi li ha amati, resta soltanto il vuoto.
C’è forse qualcosa che possiamo conoscere, di questi drammi? Poco, pochissimo; e ancora meno senza una qualche forma di umiltà, in un’epoca in cui tutti hanno risposte su tutto. Che non tutti gli errori possono essere rimediati, per quanta volontà si possa avere. E che purtroppo non sempre fiducia e amore bastano.