Foy Vance, dall’eco delle highlands ai cori del Folk Club di Torino

Foy Vance arriva per la prima volta in Italia, dopo un rinvio per problemi di salute. È partito da Milano, transitando da Bologna, per poi approdare finalmente a Torino. Proprio sul palco del Folk Club del capoluogo piemontese va in scena l’atto conclusivo di questo mini-tour, che ha tutta l’aria di essere l’inizio di una bella storia d’amore tra il cantautore di Bangor e il Belpaese. Report a cura di Umberto Scaramozzino. 

Mentre mi accomodo al mio posto assegnato, mi ritrovo catapultato in un’accesa conversazione tra una coppia di ragazze accorse dalla Campania, apposta per intercettare uno dei loro artisti preferiti, e un veterano del Folk Club e della musica dal vivo tutta. Tra un aneddoto sul suo sessantottesimo concerto di Bruce Springsteen e una lode alla sua fedele compagna d’avventure (ovvero la dolce moglie al suo fianco) non può fare a meno di spiegare alle due giovani avventrici cosa renda così speciale la venue che stanno vedendo per la prima volta. Qui c’è un’atmosfera quasi mistica, di profondo rispetto verso la musica”, dice l’uomo. “Spesso c’è un silenzio quasi religioso, che se ti viene da tossire ti senti sprofondare dall’imbarazzo”. La mia raucedine, residuo di una passeggera influenza stagionale, tradisce il rischio che possa essere proprio io quello che sprofonderà, ma sono talmente perso nel fascino di questa premessa da non materializzare questo timore.

È il 10 febbraio, fuori fa molto freddo, e questo legittima la mia incontrollabile voglia di citare una poesia di Christina Rossetti: “In the Bleak Midwinter”, “Nel grigio pieno inverno”. Non lo dico ad alta voce, ma vorrei. La citazione è doppia, perché rimanda anche a una delle più amate tagline della serie cult Peaky Blinders, da cui Foy Vance sembra uscire con estrema naturalezza. Ordino un whisky al bancone del Folk Club, completando una sorta di rito involontario ed evocando Foy, che finalmente si fa strada tra i fan disposti intorno al palco, con una configurazione che per tre quarti ricalca quella tipica degli incontri di boxe. Ripenso alla back-cover di “Sign of Life”, l’ultimo album di Foy Vance, ed è una folgorazione: mi si materializza davanti agli occhi la foto sul retro del vinile, con l’artista in una posa da pugile. Mi chiedo: ma cos’altro potrebbe allinearsi? Ogni pezzo è al posto giusto stasera.

L’artista di origine nordirlandese sale sul piccolo palco, con la coppola, i baffi a manubrio e uno sguardo glaciale forgiato nelle highlands scozzesi, dove attualmente vive con la famiglia. Imbraccia la chitarra e la sua voce avvolge il Folk Club in una coltre di mistero e fascino che per un attimo illude che quel silenzio religioso di cui parlava il veterano del Folk Club sia reale, istituzionale. E invece no: il pubblico si scalda, brano dopo brano, partecipando attivamente, tenendo il tempo e costruendo cori concitati, mentre lui canta a occhi chiusi. Vista l’impeccabilità della sua performance, probabilmente si immagina in uno studio di registrazione, o proprio negli altipiani dei live unplugged con cui ha riempito il suo canale YouTube.

La struggente “Janey” è il preambolo per il vero imprinting tra Foy Vance e la città di Torino, che arriva con “She Burns”. Non dovrebbe sorprendere, dato che è uno dei brani più belli e riconoscibili del repertorio. In maniera quasi didascalica, la canzone diventa la “she” del titolo del brano, che brucia e accende un focolare al centro del club, scaldando questa poetica, grigia e gelida sera d’inverno inoltrato. Supportata dalla loop station, la chitarra di Foy si duplica, triplica e quadruplica fino a circondare l’artista, libero di sprigionare tutta la propria potenza canora, in un climax che richiede qualche secondo di silenzio a fine brano, prima di convertirsi in un’ovazione.

Si passa al pianoforte, dietro al quale Foy tira fuori diversi assi nella manica. Primo tra tutti “Sapling”, forse il miglior singolo della sua ultima fatica discografica. Torna alla chitarra per duettare con Bonnie Bishop – la cantante country texana che accompagna Foy in questo tour – e destreggiandosi tra gli spazi ristretti torna al pianoforte per concludere la serata con la toccante “Guiding Light”. “When I need to get home / You’re my guiding light / You’re my guiding light” è il canto corale che unisce la platea del Folk Club e si fa quasi liturgico, durando più del resto della canzone. Mentre il pubblico potenzia e perfeziona la resa di quei tre versi, Foy improvvisa virtuosismi canori, compreso un ringraziamento cantato: “Grazie mille per essere stati il mio coro stasera”. Si alza, impugna il boccale di birra, e continuando a cantare cammina verso il pubblico, uscendo di scena nel buio del corridoio principale, accompagnato dalla parabola discendente del suo nuovo coro italiano.

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Se dovessi valutare la mia sola esperienza, senza grosse esitazioni concluderei di aver assistito – già a inizio febbraio – a uno dei concerti da inserire nelle classifiche di fine anno. Intenso, divertente, coinvolgente, con un finale degno di un film. Ma c’è qualcosa, intorno a me, che mi chiede di andare oltre. Di affinare lo sguardo e cogliere il vero finale della serata, nascosto tra i titoli di coda.

Uscendo osservo Paolo, presidente e direttore del Folk Club, fondato trentacinque anni fa dal padre, e noto una patina vitrea avvolgere il suo sguardo. Essendo anche il fonico, durante lo show la sua sagoma è l’unica, insieme a quella dell’operatore video, a essere illuminata. Proprio dietro le fievoli luci del mixer, aveva già catturato la mia attenzione, mentre il suo applauso convulso sbaragliava la concorrenza di tutti i clienti del suo locale. Mi saluta stringendomi la mano, come fa con ogni persona che in fila quasi indiana attraversa nuovamente il varco della sala concerti per abbandonarla, e noto sul suo volto l’orgoglio tipico di chi sa di aver portato a casa qualcosa di speciale. Non sono i biglietti venduti, l’incasso della serata o i tempi record del sold out a dipingere quell’espressione. Non sono i decibel degli applausi, la durata dello show o l’assalto al banchetto del merchandising a fine esibizione, a confermare a Paolo che domattina dovrà parlare ai suoi cari dell’evento che il suo club ha ospitato. Nossignore. Paolo l’avrebbe saputo anche senza guardarsi intorno. Anche lui a occhi chiusi, immaginandosi in quelle terre, tra nebbia, freddo e un’eco dalla quale, invece, il suo club è ben protetto. Su questi fotogrammi onirici, la mia voce fuori campo chiude questa prima trilogia italiana, nella speranza che sia solo l’inizio di una prolifica saga.