Nagisa: nel tunnel del dolore privato

Nagisa: nel tunnel del dolore privato Fuminao, studente fuori sede a Tokyo, perde l’amata sorella in un incidente che ha coinvolto l’autobus su cui lei stava viaggiando da Nagasaki, in visita al fratello. Kogahara Takeshi esplora i meandri del lutto in un racconto intimo che gioca con gli stilemi della ghost story, traendo spunto da una storia che sembra fuoriuscita da una pagina di cronaca. Presentato al 40° Torino Film Festival nel concorso lungometraggi internazionali, l’opera prima del regista nipponico – presente in sala – ha ottenuto la “Menzione speciale della giuria”.

_di Alberto Vigolungo

Dramma familiare a decise tinte horror, Nagisa è un film che convince per un taglio registico in grado di coniugare compiutamente le forme del genere con una storia minima e toccante, nel complicato sistema delle relazioni umane di questo nostro tempo. Poche scene mettono subito a fuoco un intero mondo: un autobus nella notte in procinto di arrivare a destinazione, un ragazzo addormentato in un ambiente trascurato mentre suona la sveglia del mattino, il viavai di un campus universitario nell’ora di punta, il lavoro in uno street food. Una visione, seguita da tre scene di vita quotidiana, fanno così da cornice alla vicenda di Fuminao, vittima di un’apatia tanto ostinata quanto inspiegabile.

Poi il viaggio notturno in auto con alcuni colleghi invitati ad una festa fuori città, l’incontro con il luogo maledetto, e la definitiva discesa nell’inferno. È a questo punto che la storia del grave incidente avvenuto in un tunnel a poche decine di chilometri da Tokyo, evocata come una delle tante notizie tragiche che costellano i notiziari nell’arco della giornata, con le storie di fantasmi e apparizioni misteriose che essa porta con sé, si ricollega inequivocabilmente al dramma di Fuminao, delineando i contorni di una lacerazione irreparabile: in quella galleria, il ragazzo ha perso la sorella minore Nagisa, a cui è unito da un legame fortissimo.

Con un gesto scioccante e improvviso, il protagonista manifesta tutto il suo dolore: da qui lo spettatore parte per addentrarsi nel silenzio del ragazzo, definendo la sua apatia come reazione ad un lutto impossibile da elaborare, e ad approfondire un mistero rispetto al quale non si possono che dare poche risposte.

Lo “shock” rappresentato dalla scena notturna del tunnel determina un turning point non solo sul piano puramente narrativo, ma anche nella struttura del racconto, che da qui in avanti procede attraverso l’alternanza di due piani temporali: il cupo girovagare di Fuminao tra i fantasmi della propria coscienza si combina infatti ad una serie di lunghi flashback che riportano all’infanzia e all’adolescenza dei due fratelli, cresciuti soli in un piccolo appartamento, in un legame che li ha spinti a superare ogni difficoltà.

Ma questa svolta concentra in sé anche un altro aspetto, prova concreta del talento dell’autore, che consiste in un improvviso cambiamento di registro per il quale il dramma precipita apertamente nell’horror, con tutti gli stilemi tipici del genere, dall’uso espressionista delle luci alle soluzioni di montaggio: una “intrusione” tutt’altro che inopportuna, che risulta in grado di rapportarsi con i ritmi lenti che accompagnano la rievocazione del passato, e di dialogare con questa dimensione in maniera interessante.

In Nagisa, il “motivo” del tunnel assume una valenza simbolica certamente più ampia, in grado di concentrare ansie e paure che non appartengono soltanto al protagonista: spazio dell’ignoto, “anticamera” del mondo degli spiriti, figurazione di una soglia che si vorrebbe penetrare (come indica una delle scene più suggestive del film: un piano sequenza fisso in cui la figura di una donna, perfettamente delineata nella luce del giorno, e circondata dai rumori assordanti della natura, entra nella “bocca” della galleria, fondendosi con la sua oscurità), il luogo che detta la svolta narrativa dell’opera è certamente metafora di una condizione alienata e sospesa, ma anche di un certo “rimosso” collettivo, di miti e superstizioni “sotterranee”, forse addirittura di quel baratro di disagio e solitudine su cui è affacciata un’intera generazione di giovani, e su cui non a caso molti film asiatici di questi anni continuano a soffermarsi.

Di fronte alla rappresentazione del trauma, il gesto filmico di Kogahara Takeshi è preciso ed essenziale, nella costruzione di scene dilatate in cui i silenzi sono interrotti soltanto dai “rumori” della vita domestica, come le voci di sottofondo o le canzoni che provengono da una tv accesa, che compongono una delicata poesia del quotidiano), come nei dialoghi, quasi assenti: proprio in queste analessi, focalizzate sulla vita dei due fratelli a Nagasaki, il racconto si fa più intimo, regalando paesaggi esistenziali degni del cinema di Ozu.

Sempre a livello stilistico, l’introduzione ha teso a sottolineare altri collegamenti, riconoscendo però sempre un tratto di originalità distinto: Lo stile del regista ricorda quello dei film di Kurosawa Kyoshi, anche se rielabora l’universo dell’horror in maniera molto personale.

Al di là del suo confronto con l’immaginario del cinema di genere, il valore di Nagisa emerge soprattutto dalla sua capacità di far convergere due piani diversi, dramma di ispirazione autoriale da un lato, storia horror dall’altro: sotto quest’ultimo aspetto, il film si configura anche come una ghost story che riflette gli stilemi tipici del manga, visivamente e narrativamente. Se, come si è ricordato, lo stile che caratterizza Nagisa si accosta a quello dei film di Kurosawa Kyoshi, ad una visione più approfondita l’esordio di Kogahara Takeshi alla regia di un lungometraggio denota tutto lo studio e l’amore per il cinema dei padri, e l’ispirazione di un autore che ambisce a diventare “maestro”.