[INTERVISTA] Max Casacci: “Urban Groovescapes” e il dovere di ribaltare le città

Riscoprire la città attraverso la reinterpretazione dei suoi suoni. Quelli dei mezzi di trasporto, dei bar, delle strade. Anche quelli di una partita di tennis o di un autodromo. E usare solo questi campionamenti, senza strumenti musicali. Questo è la nuovissima fatica di Max Casacci, chitarrista e co-fondatore dei Subsonica, con l’album “Urban Groovescapes (Earthphonia II)”.

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_di Alessandro Giura 

Un lavoro che fa seguito a “Earthphonia”, dove Max si era concentrato sui suoni della natura. Questa volta invece ha lavorato sui suoni cittadini, riconoscendo in qualche rumore sentito per strada un pattern ripetuto e indagando nella loro intrinseca qualità melodica, mettendoli su una sfera di suono differente.

Il risultato è un lavoro avant-pop che strizza l’occhio al dancefloor e all’elettronica più curata e contemporanea. Un album ricco di momenti ghiotti come il primo singolo “Messaggio di gioia”, costruito sulle sonorità del trasporto urbano torinese e milanese, o “A Mountain City Song”, che invece riecheggia quelle di una Courmayeur estiva e boscosa. O anche l’affascinante e conclusiva “Gap The Mind” che invita a fare spazio nella mente, ad allargare la nostra visione riascoltando la voce degli annunci presente alla fermata Embankment della Northern Line britannica.

Un lavoro di immaginazione urbano notevole, dove si evoca una città moderna e aperta al cambiamento. Una nuova percezione degli spazi urbani con la tematica ambientale al centro. E proprio queste tematiche, oltre al concept e allo storytelling dietro questo sorprendente lavoro sonoro, sono al centro della chiacchierata che Max ci ha gentilmente concesso sotto forma di intervista.

Il processo creativo dietro a questo album è stato lungo anni. Sei passato da un lavoro che si concentrava sui suoni della natura con “Earthphonia” a uno che si concentra su quelli urbani, che a volte confondiamo con il rumore e il degrado. Hai cambiato lo spartito su cui sono stati concepiti. Com’è stato trovare o magari in qualche caso scoprire questi suoni? Ti sei divertito?

Mi sono divertito molto, sopratutto quando mi sono trovato un pomeriggio in un deposito di tram in cui potevo suonare tutto quello che volevo. Mi sono sentito come un bambino in una grande sala giochi. Ogni brano ha una storia a se. Anche un approccio distante. Alcuni brani sono precedenti a “Earthphonia”.  Lavorare con i rumori è un approccio completamente diverso da quello con gli strumenti musicali perché non puoi governare il processo più di tanto.

Il rumore ti porta un po’ dove vuole lui. Se provi a forzare la mano si spappola e non funziona. Da un lato devi seguire istintivamente la natura sonora e dove ti porta, e anche la storia che stai raccontando. Da un lato c’è una materia che va tenuta intatta entro certi limiti, ma ci dive essere anche riconoscibilità. Dall’altro devi trasformare in modo anche radicale il suono che hai in uno strumento immaginario. Si mi sono divertito molto. Non è diversa la sensazione di catturare un rumore e portarti dove vuole lui.

Molti dei suoni che hai utilizzato sono quotidiani, ma spesso percepiamo le loro onde come qualcosa di fastidioso o ci lasciano indifferenti. Con questo lavoro sei riuscito invece a dare loro un armonia piacevole, in grado di scuotere un po’ il subconscio e trovare conforto da quei suoni. Per esempio ascoltando “Gap the Mind” e “Tramvia T1” è facile riconoscere quei suoni ricorrenti dei mezzi di trasporto che fanno parte della vita di molti. C’è un senso nostalgico inserito in una comfort zone. L’emozione di ascoltarli in un nuovo contesto che li fa riscoprire. Per esempio la tramvia fiorentina culla molto l’ascoltatore, e diventa un suono dolce. Era il tuo obiettivo dare un nuovo significato a quei suoni?

L’obiettivo era scalzare una narrazione sonora legata alla città che indugia nel ricalcare un’estetica degradata e opprimente. Un’immagine molto novecentesca. Ma ora abbiamo il dovere di ribaltare le nostre città, nel pieno di una crisi climatica. L’insostenibilità respiratoria nelle città è molto individuale. È sovversivo incominciare a percepire le città come un luogo e i suoni che ti cullano, ma è anche urgente farlo perché vanno re-immaginate in maniera diversa.

Alcune città si stanno adattando, penso ad Amsterdam che entro il 2030 dimezzerà il fabbisogno energetico per reggersi entro il 2050 con l’energia circolare. Questo sforzo di immaginazione è importante per poter superare quegli ostacoli dettati dalle piccole routine e egoismi quotidiani che non ci fanno rinunciare a nulla. A Torino respiriamo un’aria irrespirabile e abbiamo un’aspettativa di vita di due anni di meno. Detto questo, il valore aggiunto del far scoprire l’eccezionalità dei suoni del quotidiano è che fanno parte della nostra identità. Non ci rendiamo conto che certi suoni si estinguono con il passare delle ere tecnologiche. Il loro valore è che fa parte del nostro immaginario anche se tendiamo a privilegiare l’aspetto visivo e olfattivo. 

Lavorare con l’audio esterno è molto. C’è dell’intuizione da cogliere subito che è esaltante. Porti per caso sempre un registratore con te? 

Non quanto dovrei. Fortunatamente certi suoni possono essere catturati in modalità più lo-fi grazie all’evoluzione della tecnologia che ci portiamo in tasca. Non catturerei mai un suono per trasformarlo in un basso con il cellulare. Ma a volte anche una registrazione sporca può suggerire un utilizzo molto efficace dal punto di vista emotivo.

Hai presentato il disco al Monk di Roma. Impatto da clubbing evidente. Una delle riflessioni che ho elaborato ascoltando e cercando di capire il tuo lavoro è che la musica trovata, i suoni più nascosti, quelli trovati appunto, si legano con la musica elettronica. Ci hai pensato?

I suoni si associano concettualmente alla musica elettronica. Sento che dietro a quello che è un mondo che non utilizza le parole c’è una forte attitudine e un rapporto con la natura. Una familiarità. Ci leggo una continuità tematica. È stato un modo per confrontarmi con un certo tipo di musica elettronica molto vivo, anche rispetto alle cose che ho fatto con il songwriting. Questo approccio alla musica che trasforma i rumori e non ha strumenti. è stato un modo forse per riuscire a scostarmi in modo deciso dall’ingombro di essere appartenente ad una band di una certa riconoscibilità. Non ho pseudonimi, resto sempre io ma ho voluto cercare un arco narrativo diverso. E che non fosse il vezzo di un musicista famoso che si mette a giocare con musica non è la sua. Un certo tipo di musica elettronica che parte da un pensiero e invade la musica contemporanea. Ho provato a muovermi in quella direzione, scrollandomi la vita musicale parallela.

Lo storytelling è molto importante in ciascuna traccia. Ma non ci sono solo suoni artificiali. Il disco si apre con una “conversazione” ovvero “Anita/Club edit” dove hai lavorato sulla voce di Monica Bellucci. Anche le conversazioni possono essere suoni ballabili?

Sono storie molto diverse. Avere di fronte Monica Bellucci e dirle cosa doveva fare è stato molto divertente. Era un lavoro per una colonna sonora, senza di quello non avrei mai potuto dire a Monica Bellucci “guarda sono un musicista folle che vuol fare un brano con la tua voce per ballarci sopra”. Il contesto ha aiutato. L’idea, più che sfoltire una conversazione, era disincarnare una celebrità, oggetto di attenzione e morbosità e trasformarlo in puro suono ballabile. Le conversazioni le sto scoprendo ora. Urban Groovescapes è un mixtape in evoluzione e pochi giorni stavamo registrando delle voci al mercato in un quartiere alla periferia di Catania. Delle voci spontanee, c’è una musicalità nelle conversazioni. Hanno un ruolo importante le voci del mercato. Quello sarà probabilmente un altro capitolo sonoro. Il digitale ha tolto molto alla musica ma offre delle possibilità. I confini non sono più rigidi e un album può continuare a vivere ed essere espanso. Può continuare il suo storytelling. E gli aspetti più legati proprio alle suggestioni urbane potranno essere messe a fuoco. Il processo narrativo si fa anche a posteriori.

Mixtape in evoluzione. Questo percorso sta andando avanti dunque.

Assolutamente. È necessario. Anche per portarlo dal vivo. più materiale c’è più puoi decidere sul momento cosa suonare e come governare la situazione di fronte alle persone. Non faccio un dj set ma un live. Per dire al primo live ho suonato anche “Ghost Trail”, una traccia non presente nell’album che uscirà presto.

La nuova fruizione della musica, che ha tanti difetti ma anche pregi, ha magari reso più accessibile capire il tuo lavoro anche per l’ascoltatore occasionale. Ci hai pensato?

La curiosità di conoscere qualcosa che c’è dietro alla musica si sta manifestando come una necessità. La musica sembra alle volte relegata a tappeto di sottofondo o ad una modalità compulsiva di proiezione. Rendermi conto della voglia di indagine estetico sonora mi ha dato molta soddisfazione. Ho avuto modo di notarlo in un live a Catania diviso in due parti. Nella prima ho fatto il live di Earthphonia e nella secondo quello di Urban Groovescapes. Il pubblico più adulto ha avuto più difficoltà a passare alle due parti. I ragazzi sono più abituati alla musica senza confini invece e li ho visti molto più coinvolti. I dati mi dicono che gli under 35 sono maggiormente interessati a questo lavoro.

Sei soddisfatto di come sta venendo recepito questo percorso sonoro che hai intrapreso?

Si, sono contento. Non sapevo cosa aspettarmi. Se un album con i suoni della natura avrebbe difficilmente avuto critiche dato che difficilmente si usciva dall’idea sperimentale e dalla sfera delle aspettative per un progetto del genere, anche se magari spostava l’asticella, questa volta non sapevo cosa aspettarmi. La connotazione che io ho provocatoriamente chiamare pop si prestava a delle ambiguità. C’è più di un anno di lavoro in solitaria, senza troppe perdite di tempo. Facevo fatica a capire cosa stessi proponendo e non sapevo come sarebbe stato accolto.  E mi rendo conto di quanta voglia ci sia di parlare di musica in un certo modo in un album dove ogni brano ha un come e un perché diverso dall’altro. Raccontare ogni storia, Monica Bellucci o la bicicletta di Marco Aurelio. Ogni brano ha una narrazione in cui difficilmente sarei capitato nel lavoro a cui sono abituato. Per questo sono molto soddisfatto. Ci sono state anche delle belle recensioni.