[Non] sono come tu mi vuoi: l’omaggio del Cinema Massimo a Gus Van Sant

In collaborazione con l’Accademia Albertina di Belle Arti, il Cinema Massimo di Torino ha omaggiato con una selezione di film l’opera di uno degli autori più visionari della scena contemporanea, diviso tra Hollywood e sperimentazione. Dopo la grande mostra retrospettiva organizzata dal Museo Nazionale del Cinema nel 2016, Gus Van Sant è stato al centro di una “due giorni” di proiezioni che ha voluto anche celebrare il suo 70° compleanno. Articolo a cura di Alberto Vigolungo. 

Regista, sceneggiatore, scenografo, videomaker, pittore, musicista, Gus Van Sant è un artista nel senso più pieno del termine, che si è sempre interrogato sui problemi e i confini di un linguaggio, e sulla potenzialità dei mezzi attraverso i quali esso si esprime. La concezione artistica del suo cinema è esemplarmente sintetizzata nella sua riflessione sullo spazio e sulle soglie che lo delimitano, in un’incessante dialettica tra “interno” ed “esterno” che ha accompagnato la trattazione di temi cosmici, la solitudine, la morte, la costruzione dell’identità, sullo sfondo di un’America completamente assuefatta ai miti e ai ritmi del consumismo.

Su questo aspetto è incardinato il progetto di Carlo Michele Schirinzi, docente di Scenografia per il Cinema e la Televisione all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, che proprio all’”architettura” del cinema di Van Sant ha deciso di dedicare il corso di quest’anno, coinvolgendo il Cinema Massimo nella visione di tre opere da lui introdotte alla nutrita platea dei suoi studenti, ma non solo. Sotto la sua lente, Last Days (2005), anatomia emotiva degli ultimi giorni di Kurt
Cobain, Elephant (2003), straniante incursione nelle vite di alcuni studenti coinvolti nella strage di Columbine e Drugstore Cowboy (1989), avventura tragica di un gruppo di giovani sbandati alle prese con la tossicodipendenza e gli espedienti per soddisfarla, nella periferia di una Portland early 70s.

Schirinzi spiega come l’interesse primario di Gus Van Sant sia rivolto innanzitutto alla creazione di uno stile personale basato sulla rottura delle convenzioni del linguaggio classico: da qui, l’ammirazione sconfinata per Psycho, vero e proprio film fondativo della modernità per la sua sfida aperta al sistema, del quale propone nel 1998 un remake “letterale”, come ha osservato David Thompson nel saggio dedicato al capolavoro hitchcockiano del 1960. I modelli principali sono in fondo due, gli stessi di ogni cineasta che, come Van Sant, proviene dal cinema underground: sul piano strettamente cinefilo, John Cassavetes e, più in generale, Andy Warhol, “nume tutelare” degli esperimenti su celluloide di un’intera generazione di cineasti. Sono questi i punti fermi dell’itinerario di un autore capace di spaziare tra forme narrative differenti, dal racconto di formazione dal gusto hollywoodiano di Scoprendo Forrester (2000), con un Sean Connery in stato di grazia, al microracconto dal lirismo carveriano del suo film più recente, Don’t Worry (2018), in cui l’autore ritorna all’ambientazione a lui tanto cara, il Nord-Ovest degli Stati Uniti. Tra tutte le arti da lui studiate e praticate, la pittura è senza dubbio quella ad aver lasciato il segno più netto sulle sue immagini. La costruzione dell’inquadratura, quindi l’organizzazione dello spazio, risentono nei film di Gus Van Sant di una matrice eminentemente pittorica, tanto nelle soluzioni profilmiche quanto nelle strategie di messa in quadro. In questo senso, Elephant costituisce una prova davvero esemplare.

Parte di una tetralogia sul tema della morte – che proseguirà con Last Days – il film si presenta come un oggetto stratificato, in cui la narrazione emerge a sprazzi, e il tempo si ripiega continuamente su se stesso. Se, appena un anno prima, Michael Moore aveva spiazzato l’opinione pubblica con il suo documentario Bowling in Columbine (2002), l’intento di Van Sant nell’approcciarsi con questa tragedia nazionale si pone decisamente su un altro livello.

Infatti, “come per Last Days”, qui “l’accaduto, il fatto di cronaca diventa pretesto per mostrare qualcosa di più profondo, di cosmico”. Mostrare, non raccontare: il regista sceglie così di focalizzarsi sui frammenti che ricompongono il puzzle di un dramma inaudito. L’estetica filmica di Elephant si spiega precisamente con questa logica, per la quale gli spazi e le distanze diventano elemento dominante, con una macchina da presa “sempre addosso ai personaggi, quasi a sentirne l’odore”, e da cui deriva il caratteristico effetto straniante del film, che si manifesta anche in un graduale processo di identificazione dello spettatore con i due giovanissimi attentatori.

L’impostazione artistica (e pittorica in particolare) del gesto cinematografico vansantiano si esprime dunque nella capacità di penetrare il dramma non attraverso una storia, ma nelle dinamiche dei rapporti tra figura e spazio, negli spostamenti dettati dalla routine, ripresi da lunghe carrellate a seguire i personaggi mentre percorrono i corridoi della scuola, o il prato del campo sportivo, e nella caratterizzazione accennata dei vari personaggi mediante l’attribuzione di un’identità cromatica forte e distinta (la maglietta gialla del protagonista, la felpa rossa della ragazza che per prima cade sotto i colpi delle armi automatiche).


Alimentata da un pensiero artistico ricco ed eterogeneo, la sfida stilistica di Elephant non guarda esclusivamente all’ambito cinematografico, ma a tutte le forme di espressione (audio)visiva: in altre parole, la pellicola tende a sfidare la stessa forma filmica, al punto che, come ricorda Schirinzi, alcuni critici sono concordi nel classificare quest’opera più come performance (si noti l’impiego di attori non professionisti). Sin dall’incipit il film rivela infatti uno stile tanto originale quanto composito, frutto di una sintesi di elementi differenti che chiama anche in causa il linguaggio e l’estetica del videogame, il cui segno più esplicito si osserva nel modo in cui Van Sant muove la cinepresa, spesso alle spalle di personaggi che percorrono spazi ampi e definiti, e che molto contribuisce a plasmare il senso di un destino incombente di cui il film trabocca.

Meno evidente, anche perché sostenuto da una struttura narrativa più solida, ma ugualmente interessante sotto questi aspetti, è Drugstore Cowboy, secondo lungometraggio diretto dall’autore americano, con un’ambientazione che richiama quella di film come Panico a Needle Park (1971), del quale a tratti sembra riprendere un certo documentarismo. In realtà, l’atmosfera generale dell’opera è densa “di elementi autobiografici, che percorrono un po’ tutta la filmografia
vansantiana”. In questa storia di violenza ed emarginazione, il tema della tossicodipendenza emerge non tanto come un tentativo di evasione dalla realtà, quanto piuttosto come via di fuga da un conformismo impossibile da accettare per i suoi protagonisti. Nell’esprimere ciò, la dialettica degli spazi assume un ruolo rilevante: in particolare, il regista è qui intento a decostruire lo spazio sociale, in un continuo gioco con l’idea della soglia. Lo spazio “interno”, a lungo predominante, è quello abitato da Bob (un Matt Dillon fosco e selvaggio) e dalla sua compagnia, il luogo dove consumare
la droga rubata e abbandonarsi ai suoi effetti, e che delimita, nella sua oscurità scialba, il perimetro in cui si manifesta l’“io”; l’”esterno” corrisponde invece alla società, con cui i quattro personaggi sono in conflitto. Ma è proprio in quest’ultimo che matura la svolta, che coincide con la scelta da parte del protagonista di abbandonare quella vita da fuggiasco, di tentare la difficile via dell’integrazione. Per Bob non finirà bene; una conclusione rispetto alla quale l’entrata in scena del “prete tossico” si configura come presagio e come sentenza. Ben più di un personaggio, Padre Tom costituisce nel film una vera e propria entità simbolica, che scaturisce dalla straordinaria forza evocativa del suo interprete: William Burroughs, il critico “maledetto” per eccellenza del mito americano, emblema assoluto di una certa narrativa underground e fonte di ispirazione per diverse generazioni di scrittori. Burroughs è un simbolo, come in Drugstore Cowboy lo diventano alcuni oggetti comuni, al centro di scene giocate sulla sovrapposizione di immagini che materializzano le fantasie da “trip” e le paranoie del protagonista. Come in Warhol, l’oggetto si fa discorso. Anche
attraverso soluzioni di questo tipo, certamente più vicine al linguaggio della video-arte che al cinema, Van Sant parla della società in cui vive, che si misura unicamente in base al proprio rapporto con gli oggetti, e con i ritmi del loro consumo. Il tutto, attraverso un “mix” estetico e di linguaggio che ha sempre contraddistinto il lavoro di questo autore.

La “due giorni” voluta da Carlo Michele Schirinzi, in collaborazione con il Cinema Massimo, ha riportato l’attenzione su uno dei capisaldi della ricerca artistica di Gus Van Sant: la rottura delle norme della rappresentazione, alla base di un cinema originalissimo e sempre, sublimemente, di forte impatto.

Photograph Photographic print b&w 11×14 inches Gus Van Sant Marian Wood Kalisch