A quattro anni di distanza dal precedente passaggio in Italia, Xavier Rudd torna nel nostro Paese per cinque appuntamenti dal vivo. Trento, Padova, Cesena, Torino e Milano sono le tappe di questa mini-tournée che ha il compito di farci ricongiungere uno dei più amati “one-man band” di tradizione folk.
_di Umberto Scaramozzino
La prima volta che ho visto Xavier Rudd dal vivo, diversi anni fa, era già un pezzo grosso del folk australiano. Veniva spesso accostato a Ben Harper, Jack Johnson e al connazionale John Butler, ma si differenziava da questi per un’impronta fortemente indigena, riscontrabile tanto nel look quanto nella proposta musicale. Temevo che lo show potesse restare soffocato sotto l’hype, ma la serata fu pressoché perfetta. Estasiato, a fine concerto avevo rivolto lo sguardo verso un’amica con la quale avevo condiviso l’esperienza, certo di trovare un’espressione compiaciuta e complice, di cui però non c’era traccia. Al suo posto, invece, una nota di disappunto, che mi aveva mandato inevitabilmente in confusione. Perché quella faccia? Era stato uno show eccellente, no? Secondo la mia amica no. O meglio, diceva di averlo già visto in passato e di avervi trovato qualcosa che invece quella sera era mancato. Non un dettaglio, lo descriveva proprio come un grosso vuoto emotivo.
Nella magica serata dei suoi ricordi, ad accompagnarlo c’era la cosiddetta The United Nations, supergruppo formato da musicisti accorsi da tutto il mondo per comporre un formidabile affresco multiculturale. Eppure, non si trattava di quello. Non era l’assenza della band a turbarla. La mia amica parlava piuttosto di delicatezza, di emozione, di spirito. Da allora ho aspettato con ansia l’occasione di poterlo rivedere, nella speranza di accorgermi che aveva ragione lei, non tanto per screditare quello che ancora oggi valuto come un’ottima performance, ma per avere la rassicurante conferma che quel qualcosa di ancora più bello non fosse andato perso nelle pieghe del tempo.
Ecco l’occasione attesa: 23 ottobre 2022, Teatro della Concordia di Venaria. Ad affollare la venue in provincia di Torino ci sono famiglie con bambini piccoli, coppie di innamorati, gruppi di amici pronti a disfarsi dell’ultima parvenza di inibizione e individui in cerca di una nuova connessione col mondo. A stupirmi è la rapidità con la quale trovo la risposta al mio quesito. Mentre inizia a suonare “I Am Eagle” mi rendo conto che la componente spirituale, assolutamente preponderante nelle tematiche di Xavier Rudd, non è più solo contenuto, ma diventa forma. In quello show di alcuni anni prima, avevo forse assistito a una scossa di assestamento? Probabilmente avevo visto una versione leggermente distorta di Xavier, orientata al puro intrattenimento. Ad ogni modo, questa volta è evidente che sul palco ci sia un artista nel pieno controllo della sua arte.
Ogni dettaglio dello show sembra comunque scelto con cura maniacale, da chi ha una chiara visione d’insieme sull’esperienza che vuole offrire.
In alto a sinistra, a dominare lo stage, c’è una sfera che un sofisticato gioco di luci trasforma nella Luna. Non è solo scenografia: la rappresentazione del nostro satellite diventa spesso l’interlocutore di Xavier. Non è un caso che sia proprio lei la protagonista, musa ispiratrice, dell’ultimo lavoro in studio. Si intitola infatti “Jan Juc Moon” il decimo album di Xavier Rudd, che pur ampliando il campionario con qualche ulteriore contaminazione elettronica e hip-hop, non fa altro che rafforzare i capisaldi della sua poetica. I suoni elettronici provengono da un sintetizzatore analogico filtrato e si amalgamano perfettamente alle percussioni e al fedelissimo didgeridoo, da sempre marchio distintivo. L’impiego di quest’ultimo è mansueto, delicato, a dimostrazione che l’eco ancestrale della natura aborigena di Xavier “piedi scalzi” Rudd non preclude nulla, semmai aggiunge, tanto alla sua vita quanto alla sua musica.
I brani del nuovo full-lenght sembrano talmente buoni da rubare in parte la scena anche ai grandi classici. I singoli “Stoney Creek” e “We Deserve To Dream” suonano già come evergreen, mentre “Great Divine” e la title-track regalano i momenti più toccanti del concerto, dietro solo alla solita “Spirit Bird”, con la sua solenne gestualità e la catarsi del suo ritornello.
La connessione con la natura, con gli animali, con la terra natia – Jan Juc è infatti il nome della piccola città costiera in cui è nato e cresciuto, a circa cento chilometri da Melbourne – è talmente forte da trasmettersi dal palco alla platea. Sneakers e stivaletti iniziano a stare stretti ai piedi del pubblico danzante, che troverebbe la propria sublimazione su un manto erboso illuminato dal chiarore lunare. Vedo una coppia di amici disfarsi delle t-shirt e iniziare a ballare come in un rituale antico e mentre Xavier suona la sua chitarra lap steel capisco quanto questo suo concerto sia benefico, sotto ogni punto di vista. Liberatorio nella sua capacità di indurre una danza primordiale. Sanatorio nel suo intento di ricongiungere la vittima media del logorio occidentale con il proprio spirito sopito. Rivelatore – almeno per me – nell’eloquenza con la quale mi dice che sì, la mia amica aveva assolutamente ragione. Avevo conosciuto il performer, adesso conosco lo sciamano.