Sono giorni di grande pregio per chi ama il variegato mondo sonoro dell’Islanda. Vengono proprio dalla terra del ghiaccio e del fuoco molti degli artisti che in queste ultime settimane si sono esibiti nel nostro Paese: Ásgeir, i Múm, i Sigur Rós e – “last but not least” – i KALEO. La band di Mosfellsbær approda infatti per la prima volta in Italia, il 5 ottobre 2022 al Fabrique di Milano, e lo fa in grande stile, portando a casa un meritatissimo sold out a lungo rimandato.
_di Umberto Scaramozzino
Hanno solo due dischi all’attivo, eppure non stupisce che il seguito sia così solido ed eterogeneo. Basta ascoltare un brano in radio o vedere un video di un’esibizione live su YouTube per rendersi conto di avere per le mani merce rara. Sono talmente bravi che hanno potuto permettersi di esordire nel 2016 (sì, il vero debutto è il disco omonimo del 2013, ma la band stessa non lo considera parte della discografia, quindi facciamocene una ragione) e far passare ben quattro anni prima di dare in pasto ai fan un successore di “A/B”. Il secondo album in studio, “Surface Sounds”, è stato in grado di proporre un filotto di singoli di grande effetto – “I Want More”, “Break My Baby”, “Alter Ego”, “Backbone” e “Skinny” – che funzionano egregiamente anche in scaletta.
Si comincia proprio con “Break My Baby”, che mette subito in chiaro che frontman eccezionale sia Jökull Júlíusson. Ha tutto: carisma, stile, talento. La sua voce è senza dubbio il carattere distintivo del gruppo, che pur non suonando niente di nuovo o di particolarmente originale, riesce a emergere con grande personalità dal generico calderone rock. Senti quel timbro una volta e non te lo scordi più. Subito dopo la botta dovuta a quell’ugola d’oro, a colpire è il gran tiro dei Kaleo. Il legame con la Terra e i suoi elementi vive in ogni brano del combo islandese, che trasmette una sensazione di potenza ancestrale. Il loro blues rock a tinte folk fa già presagire spazi ben più grandi, con palazzetti dello sport gremiti e scenografie da paura.
In questo mare di consapevolezze, mentre i telefoni della platea si sollevano come banchi di meduse che impediscono ai liberi nuotatori di proseguire la traversata, la troppa precisione inizia ad avere uno strano effetto pruriginoso. Quando abitui i fan a vederti in video, mentre suoni prima dentro il cratere di un vulcano inattivo, poi in un ghiacciaio, e poi ancora con un altro vulcano in eruzione alle tue spalle, ecco, forse poni l’asticella troppo in alto. Allora da un lato è giusto far affidamento sulla propria perizia e confezionare uno show perfetto, senza sbavature, che non si dica “erano meglio in video”. Dall’altro lato, però, dà quasi fastidio. Gli ingranaggi sono fin troppo oliati. Verrebbe voglia di salire sul palco e iniziare a scombinare il set, giusto per assicurarsi che siano umani, che non sia un copione scritto per essere pedissequamente replicabile e che essere qui, a Milano, invece che in qualunque altra parte del mondo, possa fare la differenza.
Jökull sembra sentire i miei pensieri, o quantomeno il roboante coro “se non fate l’ultima noi non ce ne andiamo” che a fine set non concede neanche un secondo di silenzio al palco vuoto e che, pur facendo parte del solito script, questa volta sembra un urlo urgente, necessario. Così, quando la band torna dopo la canonica finta uscita di scena, sembra farlo con una marcia in più e con un pizzico d’emozione, quella che forse era mancata inizialmente. C’è la bandiera dell’Italia, ci sono i ringraziamenti nella nostra lingua, c’è la solita promessa di chi tornerà e avrà una nuova famiglia ad aspettarlo.