L’ultimo disco dei Verdena tra magia e illusione

verdena volevo magia recensione

Se è vero che restare fedeli a sé stessi nel cambiamento è un’arte, i Verdena sono forse la migliore band della loro generazione. La loro genuina follia è come un quadro di Pollock o un romanzo di Burroughs: una fiamma sempre ardente, anche dopo anni di carriera ad altissimi livelli? Proviamo a capirlo con la recensione del loro ultimo disco Volevo Magia a cura di Francesco La Greca.

Seven è il numero degli alberi”, così canta Alberto Ferrari in una delle più celebri canzoni dei Verdena e “seven” sono anche gli anni che distanziano l’allora ultimo lavoro Endkadenz (epopea musicale in due atti) dal neonato Volevo Magia. Durante questo interminabile iato il trio di Albino (provincia di Bergamo) si è dato alle collaborazioni più disparate: Alberto ha militato negli I Hate My Village al fianco di Adriano Viterbini e del pluririchieso Fabio Rondanini; Luca, invece, ha prima condiviso il palco con l’istrionico Carmelo Pipitone nei Dunk per darsi poi al sanguigno Math Rock degli  Animatronic; Roberta dal canto suo è diventata madre di tre figli di cui due gemelli.

I Verdena sono un enigma, una chimera in continuo mutamento, la loro musica è un caleidoscopio, mai un disco uguale all’altro, mai un episodio discografico sottotono, qualcuno invecchiato peggio di altri, certo, ma se contestualizzati nella loro epoca sono opere inappuntabili.

Eppure, tutto questo non basta a giustificare l’idolatria morbosa che i fan nutrono nei loro confronti (si faccia un giro sulle pagine social di “L’elefante blu dei verdena” per farsene un’idea). Al calderone della pozione verdeniana si deve aggiungere la loro totale incapacità di reggere un’intervista in maniera canonica, il loro spaesamento nei confronti del mondo esterno, la loro inettitudine a muoversi nello showbiz; in un certo senso si può dire che Alberto Ferrari sia l’anti Manuel Agnelli.

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Se da un lato, dunque, i Verdena sono i “paladini” di un certo rock scevro da qualsiasi sovrastruttura che non sia la mera espressione artistica, dall’altro le aspettative nei loro confronti sono aumentate un successo dopo l’altro a tal punto che, dopo sette anni di attesa e due doppi album alle spalle, deluderle era quasi inevitabile e, diciamolo subito, Volevo Magia delude le aspettative. O meglio, è una magia dalla quale siamo più che piacevolmente intrattenuti ma mai davvero incantati.

Questa volta il carrozzone itinerante dei fratelli Ferrari decide di migrare a pochi isolati dai quartieri esplorati nel precedente Endkadenz scrollandosi però di dosso quella stravaganza che aveva reso così peculiare quest’ultimo. Endkadenz era un circo miracoloso che si ergeva gloriosamente sulle fondamenta instabili di una produzione che faceva di tutto per non seguire le linee guida del manuale del buon mixaggio: gli strumenti (batteria compresa) distorti ai limiti della saturazione e la voce rigorosamente dietro, difficilmente intelligibile, gettavano le basi per una nuova originalissima estetica.

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Con Volevo Magia i Verdena spostano ulteriormente l’asticella dell’innovazione solamente sull’aspetto vocale: le parole di Alberto sono un susseguirsi di fonemi che nei momenti più distorti diventano un incomprensibile tutt’uno con gli strumenti (dopo una ventina di ascolti la gran parte dei testi tutt’ora mi sfugge: e va bene così). Una scelta che se da un lato farà storcere il naso a più di un ascoltatore della prima ora, dall’altro acquista una forte connotazione identitaria e avanguardista specialmente se collocata nel percorso musicale intrapreso dai tempi di Requiem (2007) in poi. L’impeto in avanti però si ferma qui.

La produzione del disco è un magistrale esercizio di stile con le chitarre sporche, il basso penetrante e caldissimo ma senza quel guizzo in più che aveva portato i lavori precedenti alla stregua di oggetti di culto.

Il disco trova i suoi momenti migliori nelle canzoni più elettriche: “Crystal Ball”, ad esempio, è puro granito come non se ne sentiva dai tempi di Don Callisto mentre la title track strizza l’occhio al buon vecchio hardcore punk in una sferzata di adrenalina pura. Un plauso va anche a “Pascolare” e “Paladini” che sfociano quasi nel noise-doom.

In “Sino a Notte (D.I)” il trio si dimostra campione nel bilanciare le dinamiche, dall’inizio quasi acustico si passa alle strofe distorte sino al ritornello catchy che si ripropone in modo non banale all’interno del brano. I punti in cui il disco pecca maggiormente sono i lenti. Il singolo “Chaise Longue”, ad esempio, per quanto simpaticamente atipico non è all’altezza nel ruolo di opener mentre “Sui ghiacciai” è semplicemente dimenticabile e spezza il ritmo dell’album nel momento in cui più potrebbe spiccare maggiormente il volo.

“X sempre assente” si sviluppa su una sinuosa linea di basso che non basta a salvare il brano dall’insipienza mentre “Paul e Linda” è un bel divertissement che non toglie nulla al disco ma nemmeno lo arricchisce. Una menzione d’onore va alla canzone di chiusura “Nei rami” che vede i Verdena in una veste quasi orchestrale, una delle ballad migliori del loro repertorio e con uno dei testi, a detta di Alberto, più concreti da lui mai scritto.

Ferrari senior, in una recente intervista ha rivelato come il titolo “Volevo Magia” gli faccia venire in mente le lagne di un bambino: “Volevo magia ma la magia non c’è” (da leggersi col broncio) ed è proprio questo il problema del nuovo disco: i Verdena rimangono inconfondibili, unici e capaci di sfornare canzoni fuori dal comune per originalità e mancanza di compromessi però la sensazione generale è che questa volta manchi la magia.

Verdena Volevo Magia recensione: siamo giunti alla fine e tiriamo le somme. Un buon disco che poteva aspirare a qualcosa in più, la cui maggiore colpa è di portare l’ingombrante scritta “Verdena” in copertina e che lascia un leggero amaro in bocca pur con la consapevolezza certa che comunque la si pensi l’imminente dimensione live lo valorizzerà come merita.

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