[REPORT] Nu Genea al DumBo di Bologna: comunità, libertà e groove

Il duo napoletano, accompagnato anche da Seun Kuti & Egypt 80, giovedì 16 giugno si è esibito al DumBo di Bologna per una data infuocata dal groove contagioso. 

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_di Filippo Santin

I Nu Genea suonano una musica che affonda le radici nel passato, soprattutto anni ’70/‘80 – non una semplice operazione revival, fortunatamente – e mescolano funk, jazz, ma anche disco, elettronica, musica napoletana e sonorità che fanno parte della tradizione dei paesi più disparati. Quindi, vista l’eterogeneità delle loro produzioni, ed il fatto, come già detto, che si ispirino molto al passato, capire qual è il loro ascoltatore-tipo non era facile. E non è stato facilissimo capirlo, in effetti, neanche durante la loro data bolognese, vista la grande affluenza di pubblico.  Si sono presentate persone di varie età ma accomunate da uno spiccato senso di comunità nonché dalla voglia di lasciarsi trasportare dal groove.

Comunque, tralasciando queste “indagini sociologiche” basate soprattutto sull’estetica, torniamo alla musica in sé. Durante questa data bolognese, i Nu Genea sono stati accompagnati da un’ospite d’eccezione: Seun Kuti, figlio della leggenda Fela Kuti, creatore dell’afrobeat. Insieme a lui c’erano anche gli Egypt 80, ovvero la band di suo padre. Portare sulle spalle l’eredità di una tale icona musicale non dev’essere semplice. Ad ogni modo, Seun Kuti sul palco mostra un gran carisma.

Con indosso un paio di pantaloni a righe bianche-arancioni, e una giacchetta gialla con degli strappi – che poi si toglierà visto il caldo – fin da subito stabilisce un contatto col pubblico, molto diretto e umano, accompagnato da tanti sorrisi, ma anche dalla fermezza delle sue parole, come quando ripete che oggi ci vogliono more warriors, and less soldiers.

Prosegue così sulle orme politiche del padre, che è stato attivista al pari di quanto fosse un musicista. Seun, che ha “ereditato” gli Egypt 80 quand’era ancora un adolescente, dopo la scomparsa di Fela Kuti, ha l’aura di un leader sicuro e gentile allo stesso tempo. E sul palco, senza mai fermarsi, riesce a passare dal suonare il sassofono alle tastiere, mostrando un talento musicale davvero notevole, che equilibra tecnica e cuore. Il live di Seun Kuti e gli Egypt 80 è durato all’incirca un’oretta.

Poco più tardi tocca ai Nu Genea e, simbolicamente, il fatto di suonare dopo il figlio di Fela Kuti, sembra ricongiungere il duo ai propri inizi: quando, trasferitisi a Berlino, qui hanno avuto modo di collaborare con Tony Allen, batterista che per tanti anni ha suonato insieme proprio a Fela Kuti.

Sul palco non salgono soltanto Massimo Di Lena e Lucio Aquilina, ma una formazione che rispecchia la loro “full band”, al cui centro c’è Fabiana Martone, carismatica cantante che si presenta con indosso una lunga mantella dai riflessi dorati, molto teatrale. Ed il fatto che Massimo e Lucio stiano invece agli estremi del palco, davanti ai loro synth/tastiere, sembra un po’ richiamare il nucleo di questo progetto: suonare musica per la pura passione di creare atmosfere dotate di bellezza, in assenza di riferimenti egocentrici.

Dico questo perché, a partire dalla prima canzone, durante questo concerto si respirerà una forte “aria di comunità”. Più nello specifico, il pubblico è sembrato perdersi immediatamente nella musica, assorbendo e ricambiando l’entusiasmo della band sul palco, per lasciarsi andare a quel senso di liberazione – pure dall’ego – che talvolta suscita la musica, nella sua componente più “sciamanica” e profondamente catartica.

I fan si sono scatenati ballando al ritmo di pezzi come “Tienaté”, “Ddoje Facce”, “Parev’ Ajere” – con l’apice di “Marechià” – seguendo una scaletta che è sembrata armonicamente perfetta.

E forse è proprio qui, in questa intima capacità dei Nu Genea di creare un tale livello di partecipazione e allegria nel pubblico – allegria che, però, non è affatto superficiale o mero svago – a far sì che la loro musica non suoni come un’operazione revival, malgrado le evidenti influenze retro. Perché traspare una spontaneità nel voler cercare, nel passato, non tanto delle sonorità da copiare, per semplice gusto musicale, ma piuttosto ciò che quelle sonorità, oggi magari finite nell’oblio, avevano o avrebbero avuto la forza di suscitare, parlando alla pancia.

Ecco il motivo, probabilmente, per cui tanta gente non era lì presente perché fan di un genere specifico, o di un periodo musicale: era piuttosto appassionata di musica, nel senso più puro del termine, e di ciò che essa, se lavorata con cura e sincerità, può liberare in noi.

Senza per forza, comunque, doverci abbandonare a un senso di nostalgia. Ma anzi, sfruttando “il linguaggio del passato” per poterci sentire davvero, col cuore e la pancia, nel momento presente.