La band cult del panorama math rock anni 90 fa tappa nel nostro paese. In apertura una band “di casa”: gli Yaguar.
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_di Filippo Santin
Era da tanto che a Bologna non pioveva. Dopo una serie di giornate che preannunciavano l’estate, stasera, 25 maggio, nei pressi del Locomotiv si respira invece un’aria umida, post-temporale, vagamente anglosassone. Le suole delle scarpe affondano un po’ nel pantano; si chiacchiera in piedi, magari con una sigaretta o una birra in mano, perché le panche fuori dal locale sono ancora bagnate. Sembra l’atmosfera giusta, tuttavia, per un concerto “introspettivo” come quello dei June of 44.
Il gruppo statunitense, tra i capostipiti del math rock, comincia qui il suo tour italiano, che a li porterà anche a Genova, Pisa, Orani (Nuoro), Taranto e Paestum. Nati a metà anni Novanta dalle parti di Louisville, città del Kentucky famosa, oltre che per aver dato i natali a Muhammad Ali, anche per la propria scena indie – che comprendeva band iconiche come gli Slint o gli Squirrel Bait – sono un po’ difficili da catalogare musicalmente. Perché nei loro 4 album dal ’95 al ’99 – prima di separarsi e riunirsi di recente, pubblicando un nuovo lavoro nel 2020 – hanno sempre fatto della sperimentazione il loro punto focale.
Sintetizzando: hanno usato le loro radici hardcore punk, mandandole al rallentatore, e creando così strutture ordinate, malinconiche, eteree, capaci di dar vita a uno scenario poetico – tra le altre cose, il nome “June of 44” si riferisce a delle lettere scritte da Henry Miller – perfettamente in orbita post-rock.
Questo è il mondo sonoro che portano quindi al Locomotiv, dov’è presente una buona nicchia di fan. In apertura suona però una band “di casa”: gli Yaguar. Molto in linea con le esperienze musicali dei June of 44, si caratterizzano per il lato percussioni, dove i timpani/batteria esplodono all’improvviso, in seguito a compassati giri di basso e chitarra.
Poi salgono sul palco gli headliner della serata, e non c’è assolutamente spazio per protagonismi da rockstar. I quattro membri dei June of 44 si dispongono in perfetta simmetria tra loro, senza un “leader” che stia nel proscenio. In mezzo a una canzone e l’altra Jeff Mueller interagisce col pubblico, ma quasi sottovoce, con sorrisi un po’ timidi, come se non volesse esporsi troppo rischiando di allontanare chi ascolta da un’esperienza catartica, fatta solo di musica.
La band, con pezzi che alternano chitarre tipicamente anni 90, con una cupezza grunge ma pure post-punk, a momenti simil-jazz, in cui si inserisce anche la tromba, dove si rimane straniati da cambi improvvisi, sa farti sentire in un film, come se lì nel locale risuonasse la soundtrack di un lungometraggio, chissà… dove tu, protagonista, guidi in solitaria lungo certe strade grigie, desolate, con lo sguardo perso fra rabbia e disillusione… ma pure speranza, piacere di vivere, quello che c’è anche, ad esempio, tempo dopo una storia d’amore andata a finire.
Certo, una band come questa non sembra corrispondere ai canoni di oggi – ovvero dove la soglia dell’attenzione, si dice, è sempre minore. I June of 44 richiedono un ascolto dedicato, senza troppe distrazioni, ed è anche per questo che forse non sono per tanti. Ma c’è da dire che, guardando le espressioni assorte dei loro fan sotto il palco, sanno di certo arrivare a quegli specifici cuori giusti… quasi come una lettera di Henry Miller.